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venerdì, Novembre 22, 2024
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Una Patria solidale, umana, viva e libera

Metteo Lo Presti commenta e riflette sugli ultimi concitati anni italiani della Seconda guerra mondiale, ripercorrendo brevemente eventi e circostanze analizzandoli con occhio critico

Anno orribile il 1943 per Mussolini. Nel gennaio ’43 il re “Sciaboletta” scriveva ad Acquarone, ministro della Real Casa, che bisognava esautorare Mussolini. Nel marzo del ’43 le grandi città industriali del Nord organizzarono scioperi contro il costo della vita che era salito, negli anni di guerra da un indice di 109,22 a 164,99, mentre l’indice dei salari era sceso da 90 a 80. Nel maggio si chiudeva con altra sconfitta il teatro di guerra africano. Il 19 luglio, a Feltre, Hitler abbandonò Mussolini al suo destino. Il 25 luglio Mussolini fu costretto a dimettersi e arrestato. In agosto le città italiane bombardate pesantemente dagli alleati. Le pressioni su Badoglio furono pesanti. Era l’ora della resa.

“Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”. Alle ore 18,45 dell’8 settembre ‘43 dai microfoni romani dell’EIAR, il generale Pietro Badoglio annunciò l’avvenuta firma a Cassibile, vicino a Siracusa, dell’armistizio che segnava una svolta drammatica nelle vicende della Seconda guerra mondiale. I firmatari furono il generale Giuseppe Castellano (fu notato che portava scarpe di colore non degne di un militare) e il suo interprete il console Franco Montanari da parte italiana. Da parte alleata il generale Walter Bedell Smith, futuro direttore della Cia.  Appena 45 giorni dalla destituzione di Mussolini e dallo sbarco alleato in Sicilia. L’armistizio in realtà era stato firmato il 3 settembre, ma vili timori fecero tardare l’annuncio che fu effettuato ad Algeri dal generale Eisenhower che ruppe così il silenzio del pavido Badoglio. Non si citava per ipocrisia che il nemico ora erano i tedeschi. In Italia fu il caos. Tutto era iniziato nel 1940 quando il Duce ammaliato dai successi di Hitler e illuso che si potesse trattare di una guerra lampo, dichiarò con feroce cinismo “bisogna gettare 5 mila morti sul tavolo della pace”. Così racconta nei suoi diari Galeazzo Ciano genero del Duce. La guerra, sconsigliato dai capi di stato maggiore dell’esercito è tutto un repertorio di fallimenti. L’aggressione alla Francia, la sconfitta in Albania e in Grecia, centomila alpini morti per la disastrosa ritirata dalla Russia, la flotta distrutta nel Mediterraneo.

A 80 anni di distanza la data suscita ancora aspre polemiche e divisioni mai sanate. Il re e la famiglia insieme a Badoglio scapparono a Ortona per imbarcarsi verso Brindisi. I membri della corte e le autorità militari si spintonarono indecorosamente per salire sulla nave. Il pavido erede Umberto come un collegiale seguì gli ordini del padre. I comandi militari allo sbando si comportarono, alcuni secondo coscienza opponendosi ai tedeschi, altri pavidi e opportunisti consegnando le truppe al nemico. Alla scuola di trasmissioni interforze di Hersbruck in Baviera, tracciata una linea nel cortile della caserma, fu chiesto agli alpini della Julia, di schierarsi da un lato con Mussolini, dall’altro con Badoglio. Tra le indecisioni dei soldati, i tedeschi scelsero per tutti: li inviarono in campo di concentramento a Dachau. A Tarvisio dalla caserma Italia nacque un primo focolaio di Resistenza contro i tedeschi. I soldati allo sbando. “Tutti a casa” narrava un bel film di Luigi Comencini con Alberto Sordi che prendeva coscienza degli inganni subiti e delle scelte da compiere come valore di libertà.

Rimanevano due anni di guerra che avrebbero coinvolto tutta la popolazione con un’occupazione crudele e sanguinosa, lo squallore di una vita vissuta nella perdita delle libertà personali con le umiliazioni che costava la lotta per la sopravvivenza.

Enrico Galli della Loggia, editorialista del “Corriere della Sera” nel 1996 parlò della “morte della patria”. Polemiche a non finire. Il professore parlava della crisi dello stato nazionale europeo di tipo ottocentesco e della sua sovranità. Non considerò che, come canta Francesco De Gregori, “la storia siamo noi, nessuno si senta escluso”. La struttura nazionale, nelle sue istituzioni e nelle sue rappresentanze sociali non sempre ha contorni definiti. Della Loggia pareva ignorare i comportamenti dei cittadini romani a Porta San Paolo, di migliaia di soldati trucidati a Cefalonia, dei napoletani che dal 28 settembre in pochi giorni liberarono la città, dei 600mila soldati prigionieri in Germania che non vollero aderire alla fascista RSI. A Genova il giovane Aldo Gastaldi “primo partigiano di Italia”, diede vita come accadde in tante regioni italiane alla Resistenza. Genova città unica città europea che costrinse i nazisti (unico caso in Europa) ad arrendersi (25 aprile ’45) nelle mani di Remo Scappini operaio, per molti anni ospite delle carceri fasciste

L’8 settembre fu anche palcoscenico della partecipazione delle donne alla tragicità degli eventi. Preoccupate di nascondere, aiutare, nutrire migliaia di soldati sbandati. In un paesino friulano, qualche giorno dopo l’armistizio, un alpino che aveva, per pochi attimi, perso il treno, fu ricoverato da una famiglia che abitava nei pressi. Le donne curarono le piaghe che aveva nei piedi, lo sfamarono, gli diedero i vestiti del figlio prigioniero in Germania.  Dopo qualche giorno, la sorella dell’alpino, da una città lontana, si presentò per restituire i vestiti. Una bella Italia “una di memorie, di sangue e di cor”(Manzoni). Una Patria umana, solidale e viva. Libera.

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