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venerdì, Novembre 22, 2024
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Umanizzazione delle cure? No, solo Umanità

Umanizzazione delle cure non esiste. È lapalissiana. Perché l’umanità di per sé è già una cura, e non è assolutamente scorporata dall’aspetto farmacologico o chirurgico. E la cura deve quindi contenere in sé ogni forma di umanità. Nei modi e nelle scelte.

Mario Alberti

Anche stavolta osservo, leggo, e raccolgo le storie della settimana, prima che si affievoliscano, cercando di riflettere su esse. Ma non da solo. Lo faccio con voi che mi donate l’attenzione della lettura. Scarto Enea. Troppo facile e troppo rumore su una vicenda che è un sensore, e vuole silenzio e rispetto. Anche se, diciamolo, Anchise continua a latitare. Poi c’è l’orso e il dramma vissuto dalla vittima e dalla sua famiglia. E i tentativi di repressione di pancia. Uomini contro orsi. Come la battaglia tra rane e topi di incerta attribuzione. E poi le maestre. Quella arrestata per aver favorito la latitanza di Messina Denaro. Quella sospesa per aver confuso una classe con una chiesa. Ma irrompe anche una vicenda locale di alcuni giorni fa. Maestre contro genitori. E viceversa. Per lo strano caso dell’asilo di Locri e dei bambini lasciati sotto la pioggia perché accompagnati in ritardo. E l’intervento di Marziale, che è il garante, anche se, tornando alla battaglia tra rane e topi, il suo omonimo autore è stato anche coinvolto nell’attribuzione del poemetto. È difficile atterrare sull’argomento quando la premessa è lunga. Lo ammetto. E mentre non so come arrivarci, senza scendere di quota, volo a cerchi concentrici su una notizia strana. Calabria. Un infermiere litiga con una piccola paziente di quattro anni. La mamma, indignata, scrive all’ospedale, che apre un’inchiesta. E nella risposta istituzionale viene citata una strana terminologia. Umanizzazione delle cure. Ma che vuol dire?

Umanizzazione delle cure non esiste. È lapalissiana. Perché l’umanità di per sé è già una cura, e non è assolutamente scorporata dall’aspetto farmacologico o chirurgico. E la cura deve quindi contenere in sé ogni forma di umanità. Nei modi e nelle scelte.

Smontiamo un costrutto su tutti, a questo punto. Se un medico si fermasse a parlare con tutti i parenti dei pazienti che chiedono notizie non avrebbe tempo per fare il medico. E chi l’ha detto?

Forse fare il medico non vuol dire anche rassicurare, creare alleanze con i pazienti, sedare l’angoscia dei parenti?

Perché tutto ciò viene considerato come un optional non indispensabile, come quando acquistiamo una macchina e per non attendere troppo la consegna rinunciamo al colore che vorremmo. Tanto, cammina uguale.

Le relazioni umane non sono cose, bensì indispensabili componenti della vita.

Come l’ossigeno, l’azoto. E anidride carbonica.

Tutto nelle parti giuste consente di respirare.

Mi assumo la responsabilità di affermare che le relazioni, in ambiente di cura, si caratterizzano, in questo particolare momento storico, da un eccesso di anidride carbonica. Sono avvelenate. Una batracomiomachia, come sopra, tra pazienti e sanitari.

Intendiamoci, ovviamente prendendo atto e comprendendo tutte le difficoltà legate a carenze di organico, mancanza di strumentazione, turni stressanti.

Ed è appunto per queste difficoltà che occorre intravedere una nuova alleanza tra chi cura e chi deve essere curato.

Ovvero tra soggetti non colpevoli dello stato di cose.

E sono anche ragionevolmente certo che se ci si concentra su questa necessità, senza ricorrere a corporative difese, e reciproche accuse, o malsani pregiudizi, magari potrebbe anche tornare aria buona nei luoghi di risoluzione della sofferenza, come gli Ospedali.

Est modus in rebus.

Vi racconto un fatterello. Avvenne tanti anni fa, in un reparto importante di una grande città. Il mica tanto vecchio medico era arrivato al capolinea. Il cuore aveva ceduto, una notte di inizio primavera. Come in una tragedia greca, l’infermiera di notte, una ragazzona alta e mora, lo pulì con cura, gli cambiò il pigiama sporco di morte. Lo distese composto e sereno che sembrava dormire. All’arrivo del figlio, la ragazzona si concesse una lacrima. Fuggente, dignitosa, spontanea. Quella lacrima timida era lenitiva. Era profumo di empatia sulla dura scorsa del dolore. Irrompeva con forza aprendo uno squarcio e facendo passare umanità. Sconfiggeva l’angoscia della morte con una composta e indispensabile pietas. Seppi quella notte di aprile che mio padre aveva lasciato la vita bagnato da una lacrima sconosciuta, che per questo valeva di più. Ecco cosa ci sta mancando. Ecco cosa deve tornare, subito, senza indugio, prima che sia troppo tardi.

Una furtiva lacrima su dolori sconosciuti.

 

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