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giovedì, Novembre 21, 2024
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Trattiamo i nostri luoghi migliori come lande desolate

I veneti temono le insolazioni, noi ne leviamo vanto. Se però ci diciamo la verità, al netto dell’orgoglio: più che il rischio del sole c’è quello dell’essere assolati e isolati.  Forse i veneti parlano di quello: trovare, al Sud, rovine assolate, in solitudine, abbandonate a sé stesse. Ad ogni puntura rispolveriamo Campanella, Telesio, Sibari, Kaulon, Casignana, ma in assenza di attacchi ce ne freghiamo di loro. Ce ne ricordiamo solo per sentirci migliori di ciò che siamo, quando qualcuno ci rammenta quello che siamo diventati.

 Come ogni volta che c’è o si vive come tale, un attacco agli emblemi meridionali, quelli di giù serrano le fila, rispondono agli attacchi con l’orgoglio, spesso, stupido.

I sudici come al solito hanno gonfiato i petti per ribattere ad uno spot veneto che i veneti, alcuni, sono avvezzi alle cadute di stile: “Rischio insolazione nelle rovine magnogreche” è la frase dello scandalo riportata sul sito di Visit Veneto, poi cancellata a seguito della levata di scudi. Invece, per noi: è bellissimo girare, strasudati per rovine magnogreche e poi trovarsi in una locanda, anch’essa magnogreca e in lento declino e mangiarsi una frittura di pesce profumata di bergamotto e limone, bevendo uno zibibbo quasi ghiacciato. Un vino di botta che scioglie la lingua “Ah, che terra meravigliosa, ci viene da dire, ogni cosa ha un odore, un sapore, una funzione, stare ore a non far niente e ascoltare il canto delle cicale, aspirare il profumo dell’erba secca; si capisce perché i Greci la chiamavano la terra del latte e del miele e avevano abbandonato la loro patria per stabilirsi in massa lungo le coste sudicie. Il non far niente ha un senso e un motivo; l’ozio ha un nome preciso: “Sviluppo del pensiero”. I milanesi direbbero “Pigrizia”, “Fiacca” o meglio ancora “Poca voglia di lavorare”.

I veneti temono le insolazioni, noi ne leviamo vanto. Discorsi lunghi, incomprensibili agli altri, alle altre culture. Se però ci diciamo la verità, al netto dell’orgoglio: più che il rischio del sole c’è quello dell’essere assolati, isolati. Isolazione. Forse i veneti parlano di quello: trovare, al Sud, rovine assolate, in solitudine, abbandonate a sé stesse. Rispetto all’abbandono ce ne stiamo muti. Versiamo ancora del vino, se no, il petto non si gonfia. Perché quasi sempre i nostri luoghi della cultura sono posti abbandonati a sé stessi, isolati. Ambiti che i sudici non frequentano, non onorano non conoscono. A ogni puntura rispolveriamo Campanella, Telesio, Sibari, Kaulon, Casignana. In assenza di attacchi ce ne freghiamo di loro. I draghi, i delfini, gli ippocampi di Kaulon stanno per buona parte dell’anno sotto il fango, perché il mare non se li porti via, in primavera quel brigante di Cuteri deve cominciare ad alzare i toni, perché gli venga permesso di sollevare la polvere ed arrivare, in estate, la grandezza di chi ci ha preceduto. A Casignana il più dei suoi tesori non lo facciamo emergere, perché non ci mettiamo i soldi e le cure che il luogo, unico, merita. Di Sibari conosciamo più le alluvioni che la minacciano delle bellezze che potrebbero inondarla. Senza che ce lo dicano i veneti, diciamocelo da soli: i nostri luoghi migliori noi li trattiamo come lande desolate. Ce ne ricordiamo solo per elevarci, sentirci migliori di ciò che siamo, quando qualcuno ci rammenta quello che siamo diventati.

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