Mario Alberti
Nasce a Melito, in urgenza, un bambino. La madre si era recata per visita al consultorio presente (ancora) al nosocomio melitese, e che per il quale si è dovuto lottare.
Il bello della Calabria è, specie per quanto riguarda il diritto alla salute, che si lotta per ogni cosa alquanto scontata.
Si lotta per l’applicazione della Costituzione, dopo che si è lottato per scriverla.
Francamente, diciamolo, si lotta ancora troppo poco.
Me ne rendo conto assistendo alla sequenza delle lotte.
I riti sono questi:
Comunicato stampa, protesta, sporadica, in piazza o per qualche via. Appuntamento con il dirigente di turno che accetta di ricevere i protestanti come fosse il delegato del monarca.
E non un pubblico servitore dello Stato pagato dai contribuenti, che a volte si sentono sudditi.
Poi viene redatto un nuovo comunicato, magari congiunto, a raccontare che l’incontro è stato proficuo e che il Dirigente ha ascoltato.
Ascolto come risposta.
Ascolto come concessione, non come dovere.
Ascolto dal potere terapeutico nelle relazioni d’aiuto, un po’ meno negli atti consequenziali della Pubblica amministrazione.
Qui occorrono fatti concreti.
Tutto, poi, sostanzialmente, dopo il ritenuto proficuo incontro, rimane come prima.
Terminata la viziata sequenza dell’illusione, torniamo a quanto accaduto a Melito, qualche giorno fa.
Intanto un passaggio di memoria.
Melito fino agli anni novanta aveva un Ospedale, il Tiberio Evoli, di tutto rispetto.
I pazienti trovavano risposta per ogni esigenza. Si veniva curati. Si viveva, si moriva.
Soprattutto, si nasceva.
Ecco il fatto, richiamato all’inizio del pezzo.
Una nascita in urgenza dopo che da anni le nascite programmate non potevano più avvenire per regio decreto.
O meglio, mi focalizzo sulle reazioni, visto che del disastro sanità ne abbiamo già parlato.
Si parla, si parla, si parla.
E tutto stagna, e nel silenzio peggiora.
Torniamo alle reazioni.
Che, premetto, sono condivisibili fin quando non diventano anestetico.
Si scrive di eroi, i sanitari, che in condizioni proibitive, sono riusciti a far partorire la signora.
Oltre l’ordinario, con ciò che posseggono, una quota di eroismo c’è.
Eroismo inevitabile.
Scelta obbligata.
Tuttavia non si può non rilevare l’assenza di una termoculla.
Ma anche di una bilancia per pesare il bambino.
Risulta anche di un aspiratore.
Si comprende facilmente che le cose siano andate, per fortuna, bene.
Il parto, per necessità ed assenze, è tornato ad essere un evento naturale non medicalizzato.
Da ciò che leggo, Mohamed, così si chiama il piccolo, è stato pesato a Reggio.
Al peso del bambino si aggiungono 33 km circa di statale 106.
Leggo anche, qui e là, fervida speranza che l’accaduto possa far ripristinare il punto nascite a Melito.
Speranza condivisibile in termini di afflato emotivo, senza tuttavia appoggi concreti.
Ma il dovere delle speranze non è certamente quello di appoggiarsi sulla concretezza.
Il giorno dopo tutto tace.
A vagiti lontani, vagiti che a Melito non si sentivano da anni, si torna a sonnecchiare.
Benvenuto Mohamed, nato bla giornata mondiale del rifugiato.
Se proprio dobbiamo trovare “simbolo ed analogia”, come scrive Pessoa, questo francamente mi sembra più aderente.