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martedì, Aprile 23, 2024
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Elena Sodano e la sua Casapaese vicina ai malati di Alzheimer

Venerdì 21 ottobre, a Cicala, in provincia di Catanzaro, si sono aperte le porte della residenza calabrese che accoglie le persone affette da Alzheimer e demenze neurodegenerative. La struttura è stata realizzata da Elena Sodano che, per l’occasione, abbiamo deciso di intervistare.

L’Associazione RaGi – Centri Demenze Calabria di Catanzaro, della quale Elena Sodano è Presidente dal 2002 e che dal 2006, sta conducendo una rivoluzione di pensiero in favore delle persone con malattia di Alzheimer e altre forme di demenza e delle loro famiglie. Nella nostra regione le persone con demenza formano un esercito di oltre 40 mila anime. In Calabria, sono gli unici ad avere messo in piedi Centri Diurni Autorizzati e Accreditati, specifici per persone con demenza.  Su Catanzaro ce ne sono due uno attivo dal 2016 l’altro, nello specifico, sta per nascere all’interno della struttura “Umberto Primo” che accoglie anche il CDCD dell’Asp di Catanzaro.  Un terzo Centro Diurno, invece, nascerà a breve nel Comune di Miglierina.Abbiamo Cafè Alzheimer sparsi in tutta la Regione Calabria. Oltre a quello di Catanzaro attivo dal 2016 e di Cicala attivo dal 2018 (entrambi i Comuni sono una Dementia Friendly Community) siamo anche su Taurianova (Rc), mentre abbiamo dato la disponibilità del nostro Know-How ai Cafè Alzheimer che stanno nascendo su Melito Porto Salvo (Rc) e Vibo Valentia. Ma, subito dopo l’inaugurazione di CasaPaese altri 30 Cafè Alzheimer stanno per nascere in Comuni caratterizzati da un accentuato isolamento territoriale che rende difficile la fruizione dei servizi sanitari essenziali da parte dei cittadini. All’interno di queste strutture è utilizzata la Terapia Espressiva Corporea Integrata (TECI) metodo non farmacologico, marchio registrato e in attesa di brevetto.

Come nasce l’idea di realizzare una residenza che accoglie le persone affette da Alzheimer?

Durante i mesi del lockdown l’equipe del nostro centro diurno ha lavorato senza sosta all’interno delle abitazioni delle persone con demenza che non potevano uscire di casa. Sapevamo che quello, specialmente per le famiglie, rappresentava un periodo di difficile gestione. La loro preoccupazione era tanta. Se l’infezione avesse continuato con quei ritmi, la paura più grande sarebbe stata quella che i loro cari potessero essere inseriti all’interno delle Rsa. Questo per loro rappresentava la fine di tutto. Da sempre vado affermando nei vari convegni a cui vengo invitata che le persone con demenza non possono essere istituzionalizzate all’interno delle residenze sanitarie, perché l’esternazione della malattia le fa diventare delle persone anarchiche, che non possono essere in grado di rispettare le regole organizzative di strutture che hanno ritmi tayloristici che nulla hanno a che fare con l’umanità delle cure e la normalità di vita di cui hanno invece diritto le persone con demenza. Così, come penso fermamente che le persone con demenza, proprio perché manifestano disturbi comportamentali importanti, non possono trascorrere la loro quotidianità vicino a persone che magari hanno patologie meno gravi. Le persone con demenza disturbano, scambiano il giorno per la notte, sono curiose, scavano dappertutto e questi atteggiamenti non sono compresi, giustamente, da persone che comunque stanno anche male.  Sempre nel periodo del Coronavirus, il Comune di Cicala pubblica una manifestazione di interesse per la cessione in fitto di una struttura. Ci siamo guardati in faccia e in meno di tre giorni abbiamo messo su carta un pensiero che avevo in testa da sempre, trasformare una Comunità Alloggio in una CasaPaese residenziale solo per le persone affette da demenza. Una Casa, ambiente di vita per eccellenza, all’interno della quale sarà costruito un Paese, nucleo di convivenza e condivisione pubblica. Purtroppo, il progetto non finanziava nulla se non la cessione della struttura. Ed è per tale motivo che abbiamo attivato tutto il possibile per un Crowdfunding. Quindi, casapaese è nata senza finanziamenti pubblici, ma solo con la grande generosità di una rete umana che abbiamo costruito intorno a questo progetto. La sua apertura non è la fine di un sogno, ma l’inizio di un percorso che spero possa cambiare il pensiero di prendersi cura delle persone con demenze.

Perché ha deciso di cimentarsi in questa avventura molto impegnativa?

 Noi non l’abbiamo percepita come un cimentarsi in un’avventura impegnativa, ma solo un cercare di trovare le giuste strategie possibili per tentare di aiutare le famiglie e le persone con demenza. In fondo è quello che facciamo da sempre, dato che all’inizio del nostro cammino, non abbiamo mai avuto finanziamenti pubblici per tenere aperto il primo centro diurno. Ed è per questo che io non finirò mai di ringraziare la famiglia della RaGi, gli operatori terapeutici, i progettisti e tutti coloro che girano intorno a questa realtà. Oggi, per fortuna, le cose stanno cambiando, ma gli inizi non sono stati per nulla facili.

 Ha avuto esperienze dirette con persone che soffrono di questa malattia?

Se lei intende se ho mai avuto un familiare affetto da malattia di Alzheimer o altre forme di demenza le dico di no. Il mio primo incontro con questa malattia risale al 2004, quando abbiamo avuto un progetto approvato dal Ministero dell’interno che tentava di monitorare il bisogno delle famiglie di Catanzaro che vivevano in solitudine la fragilità di una malattia. Il progetto di chiamava “Soli Mai più” ed è proprio in quel periodo che abbiamo incontrato quello che a quel tempo veniva definita “Arterio Sclerosi”. Ed è proprio in quel periodo che io ho incontrato una donna, una pianista che amava Giuseppe Verdi, la cui delicata gentilezza mi ha tracciato l’anima. Tutti mi dicevano di non avvicinarmi a lei perché era aggressiva, sputava, pizzicava. “Ha l’Alzheimer“mi dicevano. Ma poi mi sono ritrovata con la mia testa piegata sulle sue gambe, le sue mani affusolate, bianche e venose nei miei capelli e la mia voce che intonava “Libiamo ne’ lieti calici”. E lei che mi diceva: “Aiutame a rapere chidda porta ca eu on ci angagghiu”.

Cosa offre la Casapaese alle persone che combattono questa demenza?

 Un ambiente di Cura, un habitat naturale che riesce ad abbattere quella sensazione di smarrimento e di confusione che vivono queste persone a causa della malattia. Una condizione insidiosa che le rende spesso incapaci di svolgere anche le più semplici azioni quotidiane e che deriva, molto spesso, da un errato contesto ambientale. Ecco La CasaPaese sarà un luogo in cui, grazie alla presenza di operatori formati, i soggetti fragili saranno accompagnati nella prosecuzione del loro progetto di vita favorendo relazioni umane, gesti e aspirazioni, pensieri, emozioni, abitudini espresse in quel reale che è stata la loro esistenza.

Qualche tempo fa, abbiamo intervistato la dottoressa Amalia Bruni sulle sue ricerche sull’Alzheimer. Lei, pensa che non sia lontano una cura per l’Alzheimer. Cosa pensa delle sue ricerche?

Non è di mia competenza valutare le ricerche realizzate dalla dr.ssa Bruni pur ritenendole importantissime, così come lo sono tutte le ricerche che stanno coinvolgendo il mondo intero sull’Alzheimer. Purtroppo, occorre constatare che ad oggi non vi intravede alcuna luce all’orizzonte della ricerca e che istituti, anche oltre Europa, che sono all’avanguardia nella ricerca proprio sull’Alzheimer non stanno dando quei risultati che le famiglie si aspettano: il blocco della proteina beta amiloide, un farmaco che possa prevenire e interrompere la progressione della malattia. Ad oggi niente di tutto questo. Tanti proclami, ma nulla di risolutivo. E per quello che posso vedere non credo che si sia così vicini ad una risoluzione. E poi, anche se ci fosse una soluzione, intanto, cosa ne facciamo delle oltre 60 milioni di persone e più che nel mondo hanno una forma di demenza. Si stima che nel 2030 arriveremo ad oltre 75 milioni di persone. Cerchiamo per lo meno di farle vivere e non sopravvivere in maniera dignitosa?

Secondo lei, un malato di Alzheimer di cosa sente più il bisogno?

La Terapia espressiva corporea integrata, di cui sono la creatrice, si basa su un principio molto naturale. Le persone con demenza dopo una diagnosi restano sempre delle persone. Persone che non basano la loro esistenza solo sulla memoria, perché un corpo è fatto di emozioni, sentimenti, relazioni, premure. Ecco, una persona con demenza ha bisogno di sentirsi ancora protagonista di questo mondo, nonostante la malattia. A queste persone occorre onorare il loro spirito e non i loro neuroni, loro non vivono secondo le nostre logiche, loro sono persone essenziali che spesso non riusciamo a capire, perché noi siamo persone contorte animate da un controllo assurdo. Ma solo perché non sappiamo come entrare in relazione con queste persone, preferiamo sottometterle ai nostri ritmi, alle nostre esigenze, pensando che possano diventare dei burattini nelle nostre mani. E poi per assurdo pensiamo anche che queste persone possano accettare senza fiatare le nostre imposizioni. E, se questo non avviene, eccoci subito pronti a spegnerle e silenziarle, con psicofarmaci che tolgono loro ogni dignità di vita.

 Vuole lanciare un messaggio a chi ha un parente che soffre di questa malattia?

Non comprendere la persona con demenza significa essere complici di un sistema sociale che preferisce mettere da parte, eclissare tutto ciò che non rispetta i canoni della normalità. Penso che troppo spesso ci si riempie la bocca della parola integrazione. Le famiglie hanno una sola chiave a disposizione per tutelare l’esistenza dei loro cari: conoscere la demenza non da un punto di vista medico o scientifico, ma da quello dell’esistenza di queste persone. Quindi informarsi, chiedere a persone che possano dare loro aiuto, consigli e conforto. Non pensare che il fai da te possa essere risolutivo. Non lo è. Andare in sfida con una persona con demenza non serve a nulla. Ad averla la meglio sono sempre loro.

 

 

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