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Concorso esterno, controllo sociale, cultura della giurisdizione

Il 23 marzo 2021 alcuni medici dell’ASP di Reggio Calabria, oggi pienamente assolti, erano stati mandati agli arresti domiciliari con le gravissime accuse di concorso esterno in associazione mafiosa. Eppure, nonostante l’impianto accusatorio fosse imploso già in occasione della sua immediata verifica procedimentale, il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale ed avanzato, di conseguenza, la richiesta di rinvio a giudizio dei professionisti.

Si era prodigato pure il Comandante Generale dei ROS nel dare l’annuncio urbi et orbi che il 23 marzo 2021 alcuni medici dell’ASP di Reggio Calabria, oggi pienamente assolti, erano stati mandati agli arresti domiciliari con le gravissime accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e traffico di influenze illecite con l’aggravante della finalità di agevolazione mafiosa, l’una e l’altra, a distanza di pochi giorni, significativamente vanificate dal Tribunale del Riesame per assoluta mancanza di gravità indiziaria.

In altri termini, l’Organo di Garanzia aveva statuito che non esistevano ab initio elementi in grado di giustificare la privazione della libertà per i dottori Salvatore Barillaro, Domenico Forte e Antonino Coco, evidentemente ritenuti, con gravissima superficialità, concorrenti esterni ed agevolatori della ‘ndrangheta.

Eppure, nonostante l’impianto accusatorio fosse imploso già in occasione della sua prima, immediata verifica procedimentale, il pubblico ministero che aveva condotto le indagini preliminari, lungi dal prestare attenzione al “giudicato cautelare” che aveva frantumato i suggestivi postulati della tesi accusatoria, ha esercitato l’azione penale ed avanzato, di conseguenza, la richiesta di rinvio a giudizio dei professionisti.

L’esercizio dell’azione penale, come è noto, determina la transizione dallo status di indagati a quello di imputati, ed è superfluo soffermarsi sugli effetti devastanti destinati ad abbattersi su qualsiasi cittadino a causa di un “carico pendente” per pretesi “fatti” connessi alla “’ndrangheta”, trattandosi di uno stigma indelebile, in grado di resistere all’esito conclusivo del processo.

Oggi, che è intervenuto un verdetto ampiamente assolutorio, quei medici hanno pieno titolo per lamentare che tutto ciò si sarebbe potuto e dovuto evitare se solo si fosse preso atto del giudicato cautelare, di segno opposto a quello inseguito dal pubblico ministero.

Vero è che, con la requisitoria in sede di giudizio abbreviato, l’Ufficio di Procura ha correttamente chiesto l’assoluzione dei professionisti dall’accusa di concorso esterno, non senza avere rinunciato anche alla contestata aggravante ad effetto speciale della agevolazione mafiosa.

Ma è del pari vero che, nell’ ambito del controllo sociale da esercitare senza timore e/o omertà su vicende che avevano generato allarme nell’opinione pubblica, oggi va puntualizzato che il mutato atteggiamento della Pubblica Accusa lo si deve ad un giovane magistrato che non si era occupato delle indagini preliminari.

Il giovane PM ha semplicemente “ereditato” il fascicolo dai colleghi, e lo ha studiato, prendendo diligentemente nota delle verifiche giurisdizionali che avevano già da tempo messo la sordina ai roboanti annunci della esecuzione dei provvedimenti restrittivi.

Ancora: l’esercizio del controllo sociale sulla vicenda giudiziaria impone che adesso la pubblica opinione sappia anche dell’assegnazione di un incarico semi-direttivo al pubblico ministero che aveva richiesto la misura cautelare, ed il rinvio a giudizio dei professionisti, pur nella significativa assenza di progressione probatoria successiva alla assoluta insussistenza di gravità indiziaria affermata dall’Organo di Garanzia.

La realtà, dunque, pone il cittadino comune davanti ad un quadro, anzi una crosta che: conferma l’importanza della funzione del Giudice; ribadisce la necessità di una sostanziale riforma della Giustizia che sappia contenere l’incontrollabile furia moralizzatrice di frange estreme della magistratura requirente; colloca al centro della scena, una volta di più, l’esperienza fallimentare del “concorso esterno in associazione mafiosa”, fattispecie di reato di impropria creazione giurisprudenziale, con l’aggravante della assegnazione ad essa di una missione salvifica che ha solo prodotto l’effetto di farne l’icona di una vera e propria emergenza nazionale.

Quanto basta per esigere l’immediato abbandono della corsia preferenziale, sin qui fideisticamente riservata a pubblici ministeri, che aspirano ad avanzamenti di carriera grazie al declamato e narrato impegno profuso sul versante della criminalità organizzata guardandosi bene dallo specificare se tale impegno, in concreto, si sia poi tradotto nel rispetto o nell’allontanamento dalla cultura della giurisdizione.

Oreste Romeo

 

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