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sabato, Novembre 23, 2024
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Sono i troppi libri a renderci ignoranti?  

Da qualche tempo l’editoria italiana vive una stagione segnata da un incremento delle pubblicazioni di nuovi libri fuori dall’ordinario. Ma si tratta davvero di un record di segno positivo come certi dati vorrebbero farci credere? Tutti straordinari, tutti imperdibili, tutti esponenti della migliore narrativa dell’ultimo decennio. Eppure, tutti questi libri, dopo una settimana, dieci giorni, un mese vengono dimenticati, soppiantati dal nuovo romanzo straordinario, imperdibile, che come abbiamo fatto a vivere senza fino a questo momento.

È un quesito che ci accompagna dalla notte dei tempi: meglio l’uovo oggi o la gallina domani? Per la stragrande maggioranza degli editori – soprattutto i grandi – la risposta è ovvia. Uova! Uova! Poche, maledette e subito.

Da qualche tempo l’editoria italiana vive una stagione segnata da un incremento delle pubblicazioni di nuovi libri fuori dall’ordinario; un fatto che la conferma, anno dopo anno, la prima industria culturale del Paese. Ma si tratta davvero di un record di segno positivo come certi dati vorrebbero farci credere?

Tutti straordinari, tutti imperdibili, tutti esponenti della migliore narrativa dell’ultimo decennio. Eppure, tutti questi libri, dopo una settimana, dieci giorni, un mese vengono dimenticati, soppiantati dal nuovo romanzo straordinario, imperdibile, che come abbiamo fatto a vivere senza fino a questo momento. L’aspettativa di vita dei libri è uno degli aspetti su cui si è smesso di riflettere nel nostro ultrarapido presente; libri che nascono in un giorno d’autunno per venire ricoperti dalle foglie della stessa stagione, schiacciati dai nuovi titoli protagonisti delle rinverdite mail con le novità della settimana.

Sono finiti i tempi in cui la pubblicazione di un romanzo pareva – tratti in inganno dalle atemporali carriere di Dante, Petrarca e Boccaccio, conferire l’immortalità all’autore, oggi presto dimenticato, a meno di difficili e imprevedibili congiunzioni astrali, nel turbinio del mercato del libro d’oggi. Sia chiaro: i meccanismi dell’editoria sono inintelligibili anche per gli addetti ai lavori; certo è però che l’incessante turnover, il perpetuo restauro degli scaffali non giova a un romanzo che nel brevissimo passaggio che gli è concesso non riesce a trovare neppure il tempo di essere letto, compreso nelle sue pieghe meno evidenti, di essere sottoposto ai critici.

Una letteratura che dura poco, travolta dal continuo avvicendamento di cui i colpevoli sono tanti: gli editori, i giornalisti, gli uffici stampa, i lettori, i recensori, anche gli autori – perché no! –, ma pure i direttori dei festival e le giurie dei premi letterari, interessati a piazzare il nome noto per conquistare “più visibilità”, fare rumore in quell’attimo che svanisce.

È il sistema editoriale che corrompe tutto, che crea sempre più biblioclasti, passivi spettatori dei roghi dei libri del Ventunesimo secolo. Una industria malata quella dell’editoria, un congegno che se fino a qualche decennio fa andava al passo di una littorina lungo la costa ionica calabrese, oggi va veloce come uno Shinkansen N700 giapponese; una industria che prima o dopo sarà costretta a fermarsi e a tornare indietro. L’oceano di libri pubblicati, di fatti, presto o tardi dovrà generare quella onda anomala che travolgerà l’intero comparto.

Eppure, gli autori, inseriti tra i colpevoli della mortificazione della letteratura, meriterebbero un po’ di riguardo.

La genesi di un’opera, infatti, è spesso lunga, può durare anni e non in pochi casi decenni; tempo caratterizzato, da parte dell’autore, da sforzi, lacrime, sudore (sovente al posto di libro, lavoro, volume si usa il sinonimo fatica letteraria, sbaglio?), rifiuti, illusioni. E dopo tutto questo patimento e la conquistata pubblicazione, la vita del sofferto romanzo ha altissime probabilità di spegnersi dopo poche settimane dall’uscita, divorato dal meccanismo infernale che obbliga le case editrici – in specie i grandi marchi e gruppi editoriali – a pubblicare sempre più e sempre più in fretta. E per raggiungere questo scopo è chiaro che ci si concentri meno sul lavoro di revisione del testo, sulla impaginazione, sulla distribuzione e quindi sulla promozione, producendo l’effetto di un abbassamento della qualità non solo letteraria ma pure editoriale delle opere messe in giro.

Vladimir Vladimirovič Nabokov, tra i più arditi scrittori del secolo scorso, parlava dell’“alone duraturo” che riescono a conquistare certi libri, capaci di imporsi sugli altri, di farsi ricordare, tramandare, diventare “endemici” nelle librerie, nelle letture e nelle letterature. Quella capacità di lasciare una traccia di sé, di non invecchiare al primo strappo di calendario, di vedersi riconosciuti per autorevolezza e qualità; romanzi che entrino dentro il lettore, ci si stabiliscano, riemergano all’occasione, arrogantemente ne determinino l’esistenza. Non so quanti libri editi negli ultimi tre decenni possano fare vanto di sentirsi addosso quel fausto “alone duraturo”. Eppure, non abbiamo mai pubblicato così tanti libri come ora, giusto?

È ignoto chi abbia detto che “sono i troppi libri a renderci ignoranti” – alcuni attribuiscono la frase a Voltaire –, ma è una riflessione da considerare.

Con la cifra altissima – seppur in calo rispetto al numero monstre di oltre ottantacinquemila del 2021, ma sempre in aumento (+3,8%) nei confronti dei dati pre-pandemia del 2019 –, di 76.575 nuove pubblicazioni, pari a circa duecentodieci libri al giorno, quasi nove libri che nascono ogni ora che passa, nell’ultimo anno siamo stati sommersi di opportunità, ma l’indice di lettura non si è affatto alzato e le copie vendute sono financo diminuite – il calo rispetto al 2021 è stato del 2,4% (dati AIE) –; e pensare che nel calcolo resta escluso tutto il sommerso costituito dai libri stampati in autonomia presso la tipografia sotto casa e destinati a costituire regalo per la vicina di casa, l’immancabile cugino e la vecchia zia con cataratta.

È palese che la incessante produzione libraria non abbia riscontro nel numero basso – soprattutto al Sud – di lettori, tanto che ci si ritrova a chiedersi cosa stiamo facendo, chi mai leggerà tutta questa mole di libri e perché mai gli editori li pubblicano ugualmente, consci che in un batter di ciglia finiranno prima nelle colossali torri dei resi e poi nelle fauci del macero?

Ritorniamo a questo punto ai capi d’accusa a carico degli autori – non se ne dolgano – che potrebbero unirsi, consorziarsi, istituire dei comitati per difendere la loro immagine, senza dubbio compromessa da tale spirale. E invece no, perché sono troppi, ognuno un’isola dispersa nell’oceano, senza bussola, senza vento, inerti e arrabbiati per il loro “successo” sotto le aspettative; perciò arriva il tempo della collera che sale, sale, sale fin quando non è pronta a essere scagliata. Contro chi? Contro i perversi meccanismi del mercato editoriale e i suoi più prossimi artefici? No, non siamo così fortunati, ché l’autore se la prenderà inevitabilmente con il lettore che non capisce un’acca di letteratura o con il “collega scrittore” che, secondo la sua visione, per certo ammanigliato, ha venduto due o tre copie in più.

Si perde così la lecita volontà – ma magari pure velleità – dell’autore di restare nel catalogo della casa editrice, occasione che potrebbe indirizzare l’editore, di per sé poco coraggioso, nel crearlo quel catalogo forte, duraturo, qualitativamente alto, che possa spingersi oltre, rimanere vivo, vibrante, parlante alle generazioni che si susseguono. Ciò resta nelle fantasticherie di chi scrive, mentre l’editore, incontrastato, persegue nel suo unico ed esclusivo interesse: ottenere il profitto immediato (l’uovo oggi di cui in avvio) e, magari, se le cose girano bene, accaparrarsi l’autore dai grandi numeri che possa confezionargli un cosiddetto instant book da gettare nel mare magnum del mercato editoriale italiano al fine di conquistare la sua momentanea ed effimera celebrità.

Posto che gli editori hanno l’obbligo del fatturato, un mea culpa è giusto lo facciano pure loro. Non avendo tempo e voglia – e talvolta forse pure competenza o intuito – d’investire su un libro che possa far parlare di sé a lungo e, di riflesso, vendere nel tempo, l’editore propende per il più facile piano B – che dunque scala al piano al vertice – pubblicando di più per raggiungere con dieci quell’obiettivo – a questo punto diventato solo economico – che costerebbe troppa fatica e azzardo tentare di raggiungere e superare con uno e uno solo libro/prodotto di qualità.

E frattanto che abbiamo letto questo articolo un altro libro è pronto per essere dato alle stampe, a intraprendere la sua vita da coleottero, senza alcuna possibilità di essere letto, valutato, di influire sulla società in movimento o anche soltanto sull’esistenza di una persona. Ma forse è meglio così; assai meglio che questa persona e questo libro non incrocino mai le loro strade, ché, forse è vero, “sono i troppi libri a renderci ignoranti”.

Antonio Pagliuso

 

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