L’ignoto regna sovrano, a San Luca. Quando arriva Brumotti a saccheggiare la popolazione con domande e provocazioni, stranamente viene scortato e protetto, quando la Petyx e il bassotto circolano offrendo il cartello: “La mafia fa schifo” va tutto bene, l’immagine che il paese deve dare è quella, omertosi, non rispondono, non si fanno le foto con il cartello, sono tutti complici, ma il dolore no, non deve essere rappresentato, quello va taciuto. E poi ci si stupisce che neanche una lista viene presentata a San Luca alle elezioni, nessun agnello si immola e si sacrifica più, neanche per il proprio paese. E allora a questi figli a queste figlie che crescono, quale mano viene tesa…
Annamaria Delfino
La Chiesa di San Luca, Santa Maria della Pietà, ha antichissime origini. Costruita nel 1606, quando i San Luchesi si spostarono da Potamia a San Luca, probabilmente il 18 ottobre del 1592, fu poi danneggiata nel terremoto 1783 e restaurata, mantenendo quel bellissimo scalone, tipico anche delle chiese siciliane che accompagna i fedeli al portone principale di Santa Maria della pietà.
Ho sempre associato in questi anni San Luca, sempre con la lente d’ingrandimento addosso, negli eventi dolorosi, nei lutti nelle mancanze che ognuno di noi ha nei confronti di questa gente, all’effige di un altorilevo meraviglioso dell’altare della Bambaia, nel Duomo di Milano.
Vi è rappresentata la Madonna fanciulla che sale al tempio in uno scalone uguale a quello della Chiesa di San Luca, che lei percorre ignara di quello che sarà la sua vita, di madre dolorosa percorre come ogni uomo e donna di questo martoriato paese ha fatto almeno una volta nella sua vita salendo quelle scale.
Ho pensato sempre che quei grandi gradini immensi e solidi, cosi simili hanno in comune l’ascesa di un popolo ad una vita sempre tra rovi e spine con incognite e arrendevoli accettazioni del dolore della morte, del distacco atroce e prematuro dai propri cari.
E qui, in questa Chiesa, che dall’alto veglia e accoglie il suo gregge affaticato e dolente, sovrastando l’altare nell’abside nella parte più alta era collocato, fino a qualche giorno fa, un trittico commissionato nel 2015, sembra dalla Curia, ad un artista catanzarese che spesso aveva lavorato per la diocesi, tale Matteo Curcio, pittore bravissimo con una pennellata realistica dalla luce meravigliosa.
Matteo disegna una Madonna nuova, veritiera, che assiste il suo popolo, quello sanluchese ferito, quel popolo che non sempre sale quello scalone, ma spesso si imbatte nella furia della vita, nel dolore, nella morte.
La Madonna è accanto a suo figlio nella deposizione, ma questa volta attorniata da altre madri e donne che assistono i propri cari abbattuti dalla falce di sorella morte.
La Madonna, siede con un bimbo in braccio che non è il suo donato al modo, contornata da bimbi e donne in preghiera, un popolo che chiede aiuto che prega in quel dolore al quale spesso è stato sottoposto, un popolo che cerca una speranza.
Quadri e tele meravigliose, reali, che ci ricordano chi non c’è più, che rappresentano quello che Foscolo nei Sepolcri chiama, “legame di affetti tra vivi e morti , il ricordo che non fa morire mai il defunto ma lo rende eterno“.
Ma, esiste sempre un ma nelle storie di “vinti”, quelle tele devono essere rimosse, sono il segno della violenza, sono il ricordo di sangue versato, il bollo su un animale già molteplici volte martoriato.
Le tele non possono più stare li, sono stare rimosse e conservate in parrocchia, come citano sempre i Sepolcri, allontanate pari ai i morti fuori le mura dell’editto di Saint –Cloud, che ordinava sepolture anonime, nessuna lapide con fregi e decori.
Nessun dolore deve essere rappresentato a San Luca, le tele no non ci possono stare, sono inopportune, il paese prestato a set cinematografico e il Santuario di Polsi con una finta processione, con tanto di Madonna e comparse, quelle rientrano nel l’ordinario che deve essere accettato passivamente da un popolo frustato.
Che strano l’essere umano si tappa gli occhi per non vedere il suo sangue, ma osserva le ferite altrui. Che strano l’essere umano, nega anche il dolore ed il suo ricordo, come se quel segno quell’immagine producesse ancora morte, ancora dolore, non si accetta che possa essere un omaggio alle vite spezzate. Di quei figli di un dilaniato paese, che hanno percorso quelle scale speranzosi andando incontro ad un destino inesorabile qui “anche la speme, ultima Dea, fugge i sepolcri “.
Chi ha deciso di rimuovere le tele?
La Curia, si narra per riportare in quel posto dove erano collocate le l’effigie del la Madonna di Butramo, o voci sussurranti addebitano la decisione all’ordine pubblico, rappresentazioni inopportune di delittuosi eventi.
L’ignoto regna sovrano, quando arriva Brumotti a saccheggiare la popolazione con domande e provocazioni, stranamente viene scortato e protetto, quando la Petyx e il bassotto circolano offrendo il cartello: “la mafia fa schifo” va tutto bene, l’immagine che il paese deve dare è quella, omertosi, non rispondono, non si fanno le foto con il cartello, sono tutti complici, ma il dolore no, non deve essere rappresentato, quello va taciuto.
E poi ci si stupisce che neanche una lista viene presentata a San Luca alle elezioni, nessun agnello si immola e si sacrifica più, neanche per il proprio paese.
E allora a questi figli a queste figlie che crescono, quale mano viene tesa, qual è la speranza che gli si dà di percorrere quelle scale, presentandosi alla vita con il desiderio di una vita migliore?
Se viene chiusa anche quella porta, che dovrebbe essere abbraccio, perdono, dolore del ricordo sempre presente e condiviso.
Corrado Alvaro, che di fronte a quella Chiesa ci è nato è stato premonitore tristemente attuale: “La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”