È stata pubblicata una ricerca dal Consiglio nazionale dei giovani e da Eures, l’identikit che emerge dalle interviste realizzate contattando 960 giovani di età compresa tra 18 e 35 anni. A cinque anni dal termine degli studi, i giovani hanno lavorato in media tre anni e mezzo. Del totale degli intervistati solo il 37,2% ha trovato un lavoro stabile, mentre quasi il 24% è ancora disoccupato. Gli altri hanno un rapporto a termine o stanno ancora studiando e lavorando. Anche da un punto di vista retributivo ci sono notizie poco incoraggianti, la retribuzione media è inferiore a 10 mila euro l’anno.
I numeri sono impietosi. E non lasciano scampo. Riguardano il Lavoro. In particolare il lavoro degli under 35. Elencando le percentuali e disaggregandoli per aree geografiche (Nord, Centro, Sud) si finisce per guardare il dito e non la luna. Il dito ci dice che più della metà dei giovani lavorano in nero, hanno un contratto a tempo determinato, sono disoccupati, subiscono molestie e vessazioni sul lavoro. E, naturalmente, non si sposano, stanno a casa con i genitori, guardano senza speranza ad un futuro che non potrà garantire loro uno straccio di pensione. La luna è questo tipo di società, che vede ribaltati tutti i canoni conosciuti dalla precedente generazione. Welfare sufficiente a tutelare i diritti, lavoro a tempo indeterminato, o come si diceva un tempo “lavoro fisso”, pensione sicura. Non c’è provvedimento, non c’è legge che possa ribaltare questa situazione se non concepire un diverso modo di lavorare e una diversa concezione del lavoro. Così come si assiste a nuove forme nell’ambito della scienza, dell’architettura, del vivere quotidiano, bisogna che anche il Lavoro venga concepito in modo rivoluzionario. È del tutto inutile pubblicare studi e statistiche che si basino su coordinate obsolete e fuori dalla realtà. I lavori tradizionali mostrano la corda, in alcuni settori c’è più offerta che domanda, la scuola ha formato alcune categorie lasciando altre nella più completa ignoranza, mancano idee sul futuro da costruire, la denatalità è in forte aumento. E come dice Draghi “un Paese che non fa figli è un Paese senza futuro”. È ora di “inventare” un’occupazione diversa, una forma di retribuzione che “leghi” maggiormente il datore di lavoro e il prestatore d’opera (basta chiamarlo lavoratore, definizione che rimanda all’epoca fordista), una forma di compartecipazione alla vita dell’impresa dove tutti si sentano protagonisti, assumendosi oneri e onori e, soprattutto, soggetti e non oggetto di utili. Deve essere un salto culturale, che riguardi tutti gli attori coinvolti nei processi di produzione e di distribuzione delle merci e dei servizi. La “catena di montaggio”, che sarà sempre più robotizzata, deve lasciare il posto ad una “catena di controllo” che tenga conto della qualità e della necessità. Non più il lavoro fine a sé stesso, della buca scavata e poi riempita e poi riscavata e poi riempita per generare indotto, perché si è visto che alla lunga, specie nell’epoca post industriale, tutto questo non funziona.
Non si sta dicendo che il Paese deve essere il paese di navigatori, poeti, eroi, santi, artisti, ma neppure di “schiavi testa bassa e schiena curva”. Più che di sindacalisti vecchia maniera c’è bisogno di pedagoghi, di sociologi, di esperti di nuove forme di impiego. Il tanto citato (e abusato, solo verbalmente) articolo Uno della Costituzione alla parola “lavoro” dovrebbe aggiungere l’aggettivo “nuovo”. Altrimenti non faremo che registrare anno dopo anno bollettini di guerra.