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venerdì, Novembre 22, 2024
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Premio Sila: Galeazzi racconta il suo libro “Poverina”

Chiara Galeazzi ha illustrato il suo libro, “Poverina” (Blackie Edizioni), ieri sera alla Feltrinelli di Cosenza. La sua è stata una presentazione molto vivace e briosa. Insieme con la giornalista Giuliana Scura, la direttrice del Premio Sila, Gemma Cestari, e un pubblico numeroso e molto partecipe, sono state approfondite le vicende del memoir con lo stesso spirito umoristico di cui sono permeate le pagine.

 

Avere un’emorragia cerebrale a 34 anni. E raccontarla in un libro, per filo e per segno, dal ricovero alla riabilitazione, traendone una serie di storie buffe. Questa la genesi di “Poverina”, memoir di Chiara Galeazzi. Entrato nella Decina 2024 del Premio Sila, è stato presentato ieri sera alla Feltrinelli di Cosenza proprio dall’autrice. Speaker radiofonica e freelance, la Galeazzi ha trasmesso la sua perenne overdose di umorismo al pubblico presente, alla giornalista Giuliana Scura e alla direttrice del Sila Gemma Cestari. Spirito sagace, simpatia contagiosa, originale verve nel raccontare quella sua storia che è diventata un libro.

 

“La faccenda della mia emorragia cerebrale ha presentato aspetti comici fin dal principio – è partita così, Chiara Galeazzi con un’inevitabile battuta –. Prima di tutto, perché sono arrivata in pronto soccorso fatta di benzodiazepine perché avevo scambiato l’ictus per un attacco di panico”. Poi, altra intelligentissima stilettata: “Non è semplice per i libri umoristici finire nei premi letterari perché sono un po’ i figli della serva della letteratura. Sono paragonabili ai rosa, agli horror, questo genere è un libro che, sì, può avere anche delle ambizioni di fare dei ragionamenti, ma con il fatto che fa ridere, automaticamente diventa intrattenimento di bassa lega. Questo libro l’ho titolato “Poverina” anche come ironia verso quella letteratura motivazionale in cui si raccontano grandi tragedie con un lieto fine”.

 

“Questo libro è una delizia – ha sottolineato Gemma Cestari – e definirlo umoristico è molto riduttivo perché questa parola è vero che spesso viene utilizzata come una diminutio e invece, ben adoperata, ha la qualità straordinaria di essere una lente con la quale poter leggere gli eventi della vita, anche i più drammatici, e raccontarli. Ci vuole un grande talento nel maneggiare le parole e produrre questo effetto ed è un grande dono per chi come te ce l’ha. Il mio consiglio è quello di tener questo libro per le giornate tristi!”.

Tre domande a Chiara Galeazzi

Il sense of humour dell’autrice milanese non l’ha abbandonata nemmeno davanti ai nostri interrogativi…

 

Non sono in cerca di scoop, ma ammettilo… hai scritto questo libro anche per toglierti la soddisfazione di etichettare gli stronzi che questa esperienza ha smascherato…

Devo dire che molta della mia scrittura in generale, non solo in questo libro ma anche in altri ambiti, parte sempre da me che ce l’ho con qualcuno e paradossalmente anche in questo libro costantemente ce l’ho con qualcuno. Che non è il mio ictus, perché “poverino” anche lui c’è stato, ma non ha colpe. Sotto la scrittura umoristica – e comica in generale – ho notato che c’è sempre tanto livore. E nel momento in cui si riesce a trasformare in qualcosa di bello e di divertente per gli altri, beh almeno tutta questa rabbia avrà avuto un senso.

 

L’umorismo ci salverà dalla retorica! È il vessillo di “Poverina”. O la formula magica, fai un po’ tu. Ma come l’hai tenuta lontana dalle tue pagine? Processo naturale o attenzione maniacale?

Allora, mentre scrivevo è stato complicato. Soprattutto le parti fuori dall’ospedale, quando in realtà succedevano meno cose. Ché quando sei in ospedale sei circondato da gente che fa cose senza senso, in certi casi, e tutto ciò è molto d’ispirazione. La parte fuori dall’ospedale è stata un po’ più complicata, paradossalmente. Hai meno persone attorno perché sei a casa tua, torni alla tua quotidianità. Quando scrivevo quella parte e iniziavo a fare riflessioni su quello che era successo, il rischio di diventare retorici era molto alto e quindi ho cercato di mantenermi più lucida possibile. Nel frattempo, leggevo anche grandi esempi di scrittori che hanno parlato di malattia tipo Susan Sontag e dicevo a me stessa: ma io non sono Susan Sontag, è inutile che mi metto qui a fare le grandi riflessioni sulla malattia. Certo, ne ho scritte rispetto al mio caso, più che sulla malattia in generale, ma non ho filosofeggiato. Ed è vero, come insinui tu, nella scrittura è stato più complicato tenere lontana la retorica.

 

L’ho letta anche così… la cronaca di uno spaccato sociale che spazia dalla caducità del lavoro fino alla sincopata sanità italiana, passando per l’immancabile ritratto generazionale dei 30-40enni di oggi…

I millennials si devono infilare da tutte le parti quando scrivono, quello è il loro il difetto. Il nostro, diciamo! Parlo di sanità e di complicazioni della sanità ma in un caso estremamente virtuoso come quello in cui mi sono trovata. Eppoi, ci sono le riflessioni rispetto al “ruolo” che viene affibbiato al malato. Il malato è una persona con la sua vita e io ero la persona con la mia vita dentro l’ospedale. E la mia vita prevede anche che, a un certo punto, debba mandare delle fatture altrimenti non avrei di che andare avanti. E quando stai un mese e mezzo “rinchiuso”, vanno gestite anche queste cose. In tutto ciò, i medici continuavano a ripetermi che era stata una fortuna averla avuta da giovane, l’emorragia cerebrale! Beh, forse non avevano tutti i torti, ma in quel momento è stata una frase orribile da sentirsi dire.

 

 

 

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