Il volume comprende le poesie di un ampio arco di tempo. Leggendole, quello che colpisce subito è la linearità sintattica del verso che dà scorrevolezza e chiarità al discorso poetico e che si mantiene coerente fino alla fine.
Fin dall’inizio, la poetessa Caterina Adriana Cordiano, si affaccia alla vita con uno sguardo aperto e le speranze di chi vuole vivere una “vita piena”. Ama per questo il silenzio e “la solitudine” è una “compagna fedele” che la porta a diffidare delle “chiacchiere”, a confrontarsi con “le tempeste” per spingersi sempre più in alto, “oltre la linea d’azzurro”, per evitare “le false verità” e l’indifferenza ” del “giovane spensierato/ al bar”.
Vuole così vivere “la follia dei poeti” e “specchiarsi negli occhi / di un bimbo”, “ballare” con la luna e sciogliere “i pensieri nell’arcobaleno”.
In questa sua maturazione scopre le sue radici che non sono un’isola, ma “le mie radici / sono il mondo”, sono l’umanità che tutti e ognuno affratella. E allora, pur se “la strada (é)/ stretta e tortuosa”, pur incontrando “il male di vivere”, alla luce di questa umanità, vuole vivere le emozioni che ” ripresero la magia / del tempo”.
Lo sguardo della poetessa si allarga e si confronta con l’inesorabile scorrere del tempo, “il guado della vita / è vicino all’altra sponda” e non “è più tempo / di afferrare le stelle”.
Coglie così le stagioni, il loro susseguirsi, il loro nascere e morire, la loro luce, il loro calore, le loro tempeste. Si sente in comunione con la natura e, con una sottile metafora, le stagioni diventano il simbolo del vivere umano, con le sue gioie, le sue sofferenze, i suoi perché irrisolti: “ora la pioggia infuria/ e le stradette diventano / ruscello”, “gusto il tepore (della primavera)/ come calice di vino nuovo”, “la luna si arrampica sui rami/…sopra alberi d’argento”, “acqua sottile sui vetri appannati/dal caldo di domestici affetti…uccelli su alberi/ macchiati di rosso…di giallo…in un …gioco d’amore”.
Adriana sente di poter andare e vuole andare oltre e, moderno Ulisse, si sente portata da “palpiti / d’indomita avventura” “verso sentieri inesplorati”.
Accetta la sfida e il suo sguardo si allarga ancora. Piange la rassegnazione della sua terra, “i buoni cafoni / intorno ad un fuoco precoce”, la “vita banale…del vuoto pensare”. La disturbano le feste “ricche di colori, luci, scoppi, grida forsennate”, ” le chiacchiere”, banali suoni vuoti. Lei vuole andare oltre in un “gioco” di vita piena su cui “far scivolare i miei pensieri”, gli affetti che “vestono di pace/ e di complicità affettuose”.
Piange la sua terra circondata da pregiudizi che la dipingono come terra dove “qui siamo tutti mafiosi/ gente inaffidabile”. Si lamenta perché “ai nostri paesi/ hanno strappato…/ il cuore antico”, mentre ora “esulta il cemento / nelle sue fogge / oscene” con il suo sviluppo insensato, frenetico, consumistico, senza anima.
Eppure, Adriana ama la sua terra e non vuole dimenticare. Le piange il cuore lasciarla, “legatemi stretta / perché non fugga”, ma fuggirà “alla ricerca di altri cieli”. E’ però sicura che ritornerà, “lì ci troveremo”.
Anche i luoghi, le grandi città, entrano nel “gioco” della vita e vengono descritti con ricche pennellate di colori. La poetessa non solo piange la loro antica grandezza e sacralità, ma si lascia incantare dal loro fascino segreto e silenzioso ancora intatto, anche se ignorato dalla indifferenza dei più e dei turisti frettolosi.
Nel gioco della poesia entra non ultimo l’amore con le sue pulsioni, le sue gioie, le sue attese, la sua ricerca di autenticità, le sue sofferenze “quando la tua voce / scompare nel silenzio”… “l’inquietudine lacera l’anima “con denti crudeli”,
Sempre presente è nella poesia il “bisogno di bere la vita ancora”, anche se essa “svolta l’angolo / già senza di noi /, perduti, stretti / nel gorgo / della voluttà anelante”.
Il “gioco” di poesia allora diventa ed è una riflessione continua di vita che corre su un verso sintatticamente lineare, ma che sa arricchirsi abilmente di metafore, di similitudini, di personificazioni, di metafore, di anafore… che danno maggiore respiro al dettato poetico.
Armando Dittongo