Quest’anno non ho avuto bisogno di andare in giro, a Pasquetta. Mi è bastato quel pomeriggio a Marcedusa. Di persone che hanno ancora un’anima.
Felice Foresta
A Pasquetta, non sono mai andato a Capri, a Santa Margherita Ligure e nemmeno sul Lago di Garda.
Forse sono passato sulla diga del Lago Passante per andare in Sila. Ma non per aprire una tovaglia e gozzovigliare.
La montagna per me parla un’altra lingua. È un’altra cosa.
A Pasquetta, sono sempre andato in giro. In Calabria, nei luoghi minimi. Quelli ignorati. Che, apparentemente, non dicono nulla. E, invece, hanno storie straordinarie da raccontarti.
Ecco perché del tempo che fa a Pasquetta non mi è interessato un granché.
Spesso, sono luoghi che abbiamo sotto gli occhi e che pure non vediamo.
E, allora, oggi che abbiamo compreso la relatività delle nostre certezze, delle nostre apparenze e delle nostre vanità, abbiamo un obbligo. Morale e sociale. Di riconoscenza e premura verso questi luoghi.
È da loro che abbiamo l’obbligo di ripartire.
Dai piccoli borghi, dai paesi abbandonati, dalle nostre radici.
È lì che torneremo per essere accolti.
Quest’anno non andrò da nessuna parte.
Mi sono regalato il Giovedì Santo a Marcedusa.
La lavanda dei piedi intorno a cui si è stretta tutta la sua comunità è stato un momento intenso, ammonitore, ecumenico.
Non mi sono mai sentito così partecipe e così inadeguato.
La fede di un uomo è una cripta.
Non ci puoi entrare.
Puoi camminarci dietro.
Il rapporto dell’uomo con la fede è un fatto intimo, controverso, imperscrutabile. E, soprattutto, intangibile.
La fede è un fatto umano e, come tutti i fatti umani, vive di umori, utopie e ulcere.
Nel volto infranto di Marcedusa, nei suoi vecchi composti e dignitosi, nei suoi bambini felici, sul muro sbreccato della sua chiesa ho visto ciò che la Pasqua dovrebbe consegnarci.
Una preghiera che si fa carezza.
Un uomo che si fa sé stesso.
Quest’anno non ho avuto bisogno di andare in giro, a Pasquetta.
Mi è bastato quel pomeriggio a Marcedusa.
Di persone che hanno ancora un’anima.