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Orgoglio e italianità – Le key words della destra

Galileo Violini ci parla delle recenti elezioni in Abruzzo e dello spirito della destra italiana.

Galileo Violini

Che orgoglio aver vinto in Abruzzo! E che prova di orgoglio quella della nazionale di rugby. Le piace questa parola alla presidente del Consiglio. Il suono gl le ricorda l’Itaglia dei discorsi di LUI. E poi esprime un sentimento di superiorità, quella che noi italiani sentiamo un po’ verso tutti, ma soprattutto verso i derelitti che invece di starsene a casa loro, intraprendono viaggi pericolosi e irresponsabilmente mettono a rischio la vita di poveri bambini.

L’abuso della parola la ha resa popolare.

È orgoglioso di essere italiano? Questa la prima domanda rivoltami domenica dalla guardia giurata che, a Fiumicino, faceva i controlli di rito sui motivi del mio viaggio.

Come negare che la martellante propaganda neofascio-nazionalista è incisiva?. Ormai qualsiasi prodotto agroalimentari non deve garantitr la provinciale DOC. Deve rassicurarci della sua italianità al 100%. Tuttavia, quella domanda mi è parsa stimolante. Essere orgogliosi di essere italiani o essere orgogliosi di ciò che è l’Italia? Onestamente, essere italiano non è per me motivo di orgoglio particolare. Sì, posso provare orgoglio per annoverare tra i miei compatrioti Matteotti, Levi Montalcini, Liliana Segre, Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, però non dimenticare che erano italiani anche Dumini, Preziosi, Interlandi, che lo erano i mafiosi di ieri e che lo sono quelli di oggi. Diverso è chiedersi se l’Italia di oggi dia motivo di orgoglio come paese. Ci sono luci e ombre. Non posso essere orgoglioso di un paese dalle grandi sperequazioni geografiche, da una sanità, teoricamente affermata come un diritto, ma i cui tempi rendono questa affermazione vuota, di un paese che ha un eccellente sistema universitario, ma è incapace di utillizzarne il prodotto.

Ciononostante, sono grato al nostro paese. Sarebbe stato arrogante da parte mia raccontare alla guardia giurata il motivo del mio viaggio, ma esso non avrebbe avuto luogo se non avessi avuto la fortuna di nascere e studiare in un paese e una città dove un Edoardo Amaldi, dopo una tragica guerra (voluta da altri italiani), era stato capace di ricostruire un Istituto di Fisica di livello internazionale, o un Pietro Budinich (allora Budini per una stupida legge che faceva appello ad un altro futile aspetto dell’orgoglio italiano) non avesse appoggiato con entusiasmo la proposta visionaria di Abdus Salam di creare in Trieste un Centro di Scienza che sarebbe stato modello di altri in Africa, Asia, America Latina.

Sono grato delle opportunità che mi ha dato l’Italia, ma non certo orgoglioso di essere nato nell’Italia fascista, e di avere vissuto i miei primi mesi di vita nella Roma occupata dai nazisti, e anche in balia di italiani, come quelli che a pochi metri dalla mia residenza uccisero Eugenio Colorni.

La retorica dell’italianità acceca. Siamo un paese in piena crisi demografica. A chiunque dovrebbe essere evidente che, al massimo tra venticinque anni, la situazione sarà insostenibile. Necessitiamo immigrati, ma immigrati che possano identificarsi con i valori fondanti del nostro paese, democrazia, giustizia sociale, diritto al lavoro, in condizioni eque. Identificarsi con quei valori, che è quanto il giuramento all’acqusizione della cittadinanza richiede, nulla ha a che vedere con la conoscenza della lingua. La multiculturalità non minaccia il paese più delle velleità separatiste, oggi dimenticate, proprio di coloro che più si affannano oggi a alzare in senso figurato la bandiera dell’italianità. Quanto al senso letterale, lasciamo perdere che uso voleva dare qualcuno di loro a quella bandiera. Folcloristici quando vantano la Nutella, basata per altro su pistacchi importati, ma irremovibili nella richiesta di conoscenza della lingua, mito che ha permesso di recente a un sindaco di repingere la domanda di cittadinanza di una persona residente da molto tempo, integrrata socialmente.

In cambio l’italianità ha una declinazione affievolita, tutta sua, nello sport. Panem et circenses è formula che continua a pagare. L’Italia vince contro la Scozia, undici anni dopo l’ultimo successo in quella competizione, e l’ineffabile presidente del Consiglio intona un peana, forse non privo di valenza elettorale, a giudicare dai risultati delle regionali in Abruzzo. Squadra che confermerebbe tutti gli stereotipi cari ai nazionalisti, da antologia il discorso negli spogliatoi della presidente, ma allenata da uno straniero, e con quattro giocatori dal cognome esotico e quasi tutti di recente italianità. Ma si sa, per gli sportivi, il cammino alla cittadinanza è facile e veloce, mica i dieci o quattro anni di qualunque mortale, a parte lo sfortunato caso Suárez, e invece per le migliaia di bambini nelle stesse condizioni di nati da cittadini extracomunitari, il cammino è impervio, per non parlare di chi cerchi si averla per residenza.

Tema delicato quello dei successi di sportivi di seconda (ma a volte anche prima generazione). Vannacci – Egonu è variante prudente di Calderoli – Nkonge. Ma dove diventa surreale è quando gli ultras condizionano la campagna acquisti della propria squadra, anche se, nella maggior parte dei casi, sfogano il loro razzismo soprattutto contro gli avversari.

Ma torniamo all’Italia che vince, di cui sarebbe simbolo la nazionale di rugby (presidente la chiami palla ovale, sia coerente), ma allora, quando si perde, che? Italia Germania all’Azteca ha più valore simbolico del Golden goal di Trézéguet? E facciamo finta di dimenticare che quel giorno del 1970 degli italiani speravano di poter festeggiare con la banda municipale un eventuale risultato opposto.

Che lo sport non sia oppio dei popoli, utilizzato per promuovere surretiziamente una retrocessione riguardo diritti che la Costituzione del 1948 garantisce. E, ricordiamolo, li garantisce senza distinzioni nazionaliste.

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