Ero piccolina quando vidi per la prima volta Anastasia con Ingrid Bergman. Avrò avuto circa dieci anni: quell’età in cui alcune cose ci sembrano inspiegabili finché non arrivano mamma o papà a dirci perché e percome, e dopo appaiono perfino scontate.
Mi rimase impresso il passaggio in cui Ingrid Bergman raccontava di una giovane suora che al manicomio le portava qualcosa di delizioso da mangiare: “Un’arancia o dell’uva”.
Come poteva un’arancia essere mai un “regalo”, una “delizia”? Un’arancia, nella mia testa di bambina, era un umile frutto che allagava le nostre campagne invernali di color arancione e riempiva gli alberi fino a farli scoppiare.
“Come sarebbe che le portava un’arancia in regalo, papà?”.
Devo dire che mio padre, forse preso dal film, forse dal viso dolce e severo di Ingrid Bergman, non iniziò una delle sue solite tiritere che partivano dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente e finivano a Emilio Sereni e al capitalismo marxista. Mi disse semplicemente: “Loro non le hanno, l’albero di arance non cresce al freddo. Un’arancia era considerata un dono prezioso. Non ne parliamo un limone, sarebbe stato un regalo da regina!”.
Fu forse la prima lezione di climatologia della mia vita.
I frutti poetici
Ritrovai, dopo decenni, la descrizione della preziosità degli agrumi nel libro di Kazimiera Alberti “L’anima della Calabria”, nel quale i limoni diventano quasi frutto magico: il limone che curava tutti i malanni, che disinfettava, che proteggeva case e bambini, che si trasformava in essenza divina, in stille benedette dagli dei.
La stessa atmosfera di meraviglia e di infantile stupore si respira nell’ultimo libro di Gaetano Zoccali, originario di Reggio Calabria, ma di stanza a Milano da molti anni, giornalista per numerose testate, dall’ «Informatore agrario», «Ville e Giardini», «Marie Claire» e «Gente», scrittore e giardiniere (lo trovate su Instagram come @the_pleasure_garden). Il titolo è I giardini del Sole, recentemente edito da Officina Naturalis.
Un libro che nasce da una conversazione con il celebre vivaista messinese Natale Torre sui frutti esotici acclimatabili in Italia. Non parliamo di agrumi, quindi, di limoni o mandarini particolari, se non occasionalmente, ma di quella che abbiamo sempre chiamato “frutta esotica”, con un termine che includeva e impastava tutto in modo improprio, come il packaging di un brick di bevande con noci di cocco, ananas, soia e carote.
Oltre a fiori e piante ornamentali da clima caldo, il discorso con Torre si sposta velocemente sulla frutta: guava, pomo dei caffri, litchi, passiflora, avocado, mango, annona, papaya, banani, carambola, pitaya, macadamia, pecan, white e black sapote, e innumerevoli altri.
Solo a nominarli il cervello inizia a mulinare in divagazioni poetiche e pensieri di mondi esotici in cui cibi deliziosi si spiccano delle fronde degli alberi o addirittura piovono dal cielo.
Ad ogni passaggio del libro, si può dire a ogni riga, si rimane sorpresi, affascinati, trascinati, verso un mondo ricco, opulento, carico di profumi e di squisitezze da far concorrenza all’idea di un paradiso in terra, in cui basta allungare la mano e raccogliere un frutto dal sapore delizioso. La mente scivola senza freni in un vortice di pensieri apparentemente incoerenti, sovrappone volti e storie raccontate da romanzi e film, da saggi su grandi navigatori e cacciatori di piante, traccia su planisferi immaginari rotte ideali per congiungere una pianta all’altra, srotola date e rincorre a spron battuto la sequenza dei nomi botanici, che sembrano custodire tutte queste vicende, pur senza narrarle.
Una terra piena di risorse
Un nome, da solo, può contenere infinite storie.
Il volto del capitano Blight, quello di Mel Gibson, i riccioli bruni di Lord Banks, i suoi soldi, le sue doti amatorie, lo scolo, la febbre gialla, la guerra dell’oppio, Gian Lupo Osti che si inerpica sulle montagne della Cina, i romanzi di Conrad, Indiana Jones, i miei avocado tanto odiati dai vicini, arrivati dal Venezuela qui in Calabria con il narcotraffico.
Tutto questo e altro ancora si attorciglia in testa nel passaggio da occhi a cervello, e la lettura diventa trascinante, costellata da personalissimi ricordi. Ogni pagina sarà sorprendente sia per la quantità di informazioni, sia per le implicazioni che queste comportano.
“Un libro difficile” lo descrive Zoccali. Sì, ma solo per i giardinieri nordici costretti a ritirare gli agrumi in casa in inverno. La soggezione culturale che noi meridionali abbiamo nei confronti della cultura nordica, che a sua volta è una brutta imitazione dello stile inglese, è tale che siamo costretti a conoscere le loro piante di montagna, mentre loro – quando vengono in vacanza al Sud in estate – si chiedono cosa siano “quegli alberetti” che spuntano dalle agavi.
Questo libro mi ha dato una coltellata per pagina, facendomi ancor più pensare quanta subalternità culturale ed economica viviamo nei confronti di uno Stato che ci vuole solo come bacino d’acquisto, criptosalariato, massa impiegatizia e bassa manovalanza, a cui non dà la dignità di poter lavorare dove siamo nati.
Non in molti pensano che ciò che si trova sui banchi dell’ortofrutta al supermarket o nell’INCI dei prodotti cosmetici, si possa coltivare anche nel proprio Paese.
Eppure l’esperienza del kiwi qualcosa dovrebbe avercela insegnata, ed è su questo punto che batte Natale Torre: la coltivazione di frutta esotica da reddito in Italia. Più stazioni d’acclimatazione in modo da saggiare la resistenza delle piante. Frutti che oggi paghiamo a due euro l’uno potrebbero veder scendere il loro prezzo fino a essere non proprio economici, ma almeno più abbordabili. Questo arricchirebbe non solo le tavole e la cucina, ma soprattutto le tasche di molti piccoli e medi coltivatori, aziende di trasformazione, conservazione, distribuzione e in generale tutto il comparto alimentare-frutticolo, sia fresco che conservato, sia di piccola produzione che di grande distribuzione.
In questo la visione di Natale Torre è molto precisa e poco incline a favoleggiamenti di zecchini d’oro e campi dei miracoli, ed è perfettamente raccolta dalla penna di Zoccali, che lavora di ascia, martello e cesello per far emergere la personalità dinamica di Torre, senza lasciarsi prendere in un tornado cognitivo, lasciando intatto l’enorme patrimonio informativo contenuto nel libro.
Molte di queste piante sono usate non solo a scopo alimentare, ma anche cosmetico, farmacopeico, in profumeria, altre potrebbero esserlo come biomassa combustibile. La ricchezza del mondo delle piante delle zone calde del globo è tanto vasta da lasciare senza fiato.
Mai in un libro sulle piante o i giardini ho letto tante volte la parola “Calabria”. La Calabria non compare quasi mai nei libri di giardinaggio italiano, e di certo con colpa, se non con dolo.
Certamente il libro non nasce con precisi intenti politici, ma li contiene tutti, sebbene sia breve e leggibile.
La frutticoltura come nuovo inizio e le minacce che perseguitano questa terra
Della frutticoltura d’acclimatazione la Calabria (e non parlo del resto del Sud e del Meridione, che ci considerano un residuo tossico e un’appendice malavitosa e misera, a cui augurare vulcano, asteroide, tsunami e virus), si potrebbe fare vera ricchezza. E certamente questa non è una novità, né per Zoccali, né per Torre, né per moltissimi che conoscono il settore della frutta da reddito.
Frutticoltura e la coltura delle piante da profumeria sono i due settori più facili e “immediati” per quanto riguarda l’agricoltura in Calabria, che per via della sua particolarità orografica potrebbe accogliere piante anche da altopiano freddo, o colture di nicchia da fresco e umido, come la costosissima Wasabia japonica.
L’indotto generato solo da questi due settori sarebbe immenso e potrebbe garantire lavoro per generazioni e assicurarsi un mercato non locale né nazionale, ma globale.
Ma tutti abbiamo sotto gli occhi le vicissitudini del bergamotto, che nonostante trovi solo qui il clima ideale per la coltivazione, non riesce a sfondare il mercato. Neanche altre colture pur accorsatissime, come gli avocado o la pitaya, ci riuscirebbero, per la semplice ragione che la longa manus dello Stato lo impedirebbe, attraverso il suo prediletto strumento per il controllo del territorio e dell’economia: la mafia.
‘Ndrangheta è ormai un appellativo quasi folkloristico: si può parlare benissimo di criminalità organizzata a livello transnazionale. E quando la mafia calabrese ha superato la “zona di consenso” consentita dallo Stato, Ilda Boccassini si iettau du’ mascate ‘nte mussa e l’ha inginocchiata.
Adesso venitemi a dire chi è più forte: lo Stato, che con due poliziotti in divisa mette in ginocchio il Siderno Group, o lo Stato? E a questo punto è lecito domandarsi chi è il padrone e chi è il servo, tra i due. E in nome di chi e per conto di chi, e a vantaggio di chi, la mafia ha compiuto e compie i suoi quotidiani imbrogli, dal traffico di organi umani, fino ai ruoli idrici pazzi? A chi fanno comodo i commissariamenti? Che senso ha rimuovere una giunta senza porre sotto indagine gli uffici chiave per l’erogazione di appalti e il drenaggio del danaro dei cittadini (traduco: ufficio tecnico e ufficio tributi)?
La speranza per un futuro migliore
Questo libro parla del FUTURO della Calabria, almeno di uno dei futuri possibili, di un futuro positivo e non succube. Non sorprende affatto che sia una piccola casa editrice di Moncalieri, in provincia di Torino, che ne abbia potuto scrivere: qui nessuna casa editrice si sarebbe arrischiata a pubblicare un libro del genere, sebbene non siano poche le persone in grado di scrivere dell’argomento.
Per chi ha una naturale familiarità con le piante citate nel libro, come moltissimi meridionali e calabresi, non è quindi affatto difficile, anzi, persino implicito, immaginare a occhi aperti le piante descritte, collocate con una certa precisione geografica, magari in sostituzione di colture abbondanti come gli agrumi, ma non più redditizie.
Un “possibile futuro orticolo” per la Calabria che significherebbe se non la fine dell’immiserimento verso il quale viaggiamo, almeno una barriera d’argine piuttosto alta. Ne verrebbe fuori un romanzo di fanta-orticoltura, perché alla Calabria non verrebbe mai consentito di crearsi una minima stabilità economica. Nulla verrebbe e verrà mai concesso alla Calabria, nulla che non sia all’interno di una pianificazione molto precisa sulla finanza nazionale.
A noi la povertà, a noi la sorte di essere nati in catene, a noi il marchio, a noi l’onta. E di più: a noi rimane l’impossibilità di una vita dignitosa nella nostra stessa terra. Dilaniata, fatta a pezzi, sbranata dalla nazione da cui è posseduta a esclusivo beneficio delle regioni dominanti, che godono della loro ricchezza come se realmente fosse meritata e non semplice risultato di algebrica sottrazione.
Ed è più che ovvio che ogni calabrese raziocinante si senta coltellate in pancia leggendo questo libro.
Gli altri sogneranno invece il paradiso in terra.
Per favore, siatene grati, chiunque siate e comunque la pensiate.