Fausto Germanò
Il mio paese, ricordo, era fatto di candida pietra. Al risveglio, ritrovavi le case immerse nel riverbero accecante del sole mattutino, tutte abbarbicate l’una all’altra, come in un grande abbraccio o, forse, nel mutuo bisogno di proteggersi da ogni pericolo.
Una dopo l’altra le vedevi spalancare pigramente gli occhi verso est, a guardare quella spennellata d’azzurro, laggiù, in lontananza, oltre la collina di Bovalino.
Niente di che a guardarle singolarmente quelle case, ma nel colpo d’occhio d’insieme coglievi tutta la bellezza di un unicum, un corale di mute voci bianche, che da lì a poco si sarebbero mescolate al vociare indistinto dei contadini, al belare di piccole greggi e al frastuono di armenti, già pronti a prendere la via delle campane.
Questa è la visione che intere generazioni hanno vissuto nei secoli passati. A chi è toccato migrare, è stata la cosa più preziosa da portarsi dietro, scolpita nella mente e nel cuore. Era il luogo in cui rifugiarsi con la memoria, dove rivivere i giochi dell’infanzia, i riti e le tradizioni religiose, le farse carnevalesche nelle piazze e lungo le strade, quel rito antico e cruento del povero maiale trasformato in riserva per l’inverno, e tanto altro ancora.
Scrive l’antropologo Vito Teti nella prefazione al suo libro “Il senso dei luoghi”: “contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai. Si solidificano nella dimensione della memoria di coloro che vi abitavano, fino a costituire un irriducibile elemento di identità. (…) sono il luogo di una poetica. La poetica dell’abbandono”.
Ma per i nostri piccoli centri, non è stato così. L’abbandono è stato un cancro che lentamente l’ha divorati dal di dentro, prima col degrado e poi, ad ogni cadere di pietra, recidendo, radice dopo radice, ogni legame col passato.
La memoria, come la intende Teti, per loro è poca cosa, poiché destinata a scomparire assieme a chi ne ha conservato il ricordo.
Resta solo il rammarico, al pensiero che nulla si è fatto per proteggere e conservare quelle antiche mura: chi doveva farlo non se n’è curato, ed oggi tutto e irrimediabilmente perso.
Allora, amici, no, il nostro piccolo borgo non chiamatelo più “paese di gesso”.
(la foto degli anni ’50, è dello Studio Fotografico Ammirato)