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lunedì, Novembre 25, 2024
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Napolitano, Macaluso e i Comunisti

Filippo Veltri ci parla del fu presidente Napolitano, ripercorrendo vicende, eventi e azioni che hanno segnato la vita del noto politico.

Una settimana fa è morto Giorgio Napolitano e ancora non si sono spenti gli echi dei commenti e delle interpretazioni su quest’ uomo che, comunque la si pensi, è stato l’ultimo dei grandi comunisti. In vita di quella generazione resta solo Aldo Tortorella e poi, un po’ più indietro, Achille Occhetto.

In realtà Napolitano – come molti hanno ricordato nella celebrazione laica di martedì scorso nell’aula di Montecitorio – fu il primo in tutto: ad andare negli Usa, a fare il ministro dell’interno, a credere nell’Europa. Sulla scala mobile e sul rapporto con il Psi il dissenso con il suo segretario fu grande. La tentazione di dire che con lui se ne e’ andato l’ultimo prestigioso comunista italiano vivente è dunque forte, soprattutto dopo la morte di Emanuele Macaluso, suo carissimo compagno di una vita di battaglie.

Un destino incrociato, quello dei due amici, di origine sociale così diversa. Macaluso siciliano, per aiutare la famiglia non può studiare – è perito industriale – ma diventa un dirigente, un giornalista, un intellettuale nella militanza di partito e nel sindacato. Napolitano è aristocratico, colto di famiglia, anglofilo. Diversissimi anche nel temperamento, sanguigno uno, imperturbabile l’altro. Ma entrambi sono monumenti alla loro cultura politica, che fu quella di Paolo Bufalini, Luciano Lama, Gerardo Chiaromonte e Nilde Iotti, e che venne definita dalla sinistra ingraiana  «migliorista», «la destra Pci» perché ispirata a un miglioramento delle condizioni della classe operaia sui valori del socialismo democratico e antifascista del partigiano Giorgio Amendola, in un partito che usava con disprezzo la parola «socialdemocratico» come un sinonimo di menscevico. Biografie di comunisti che volevano evolvere in socialista il loro partito, forse salvandolo. L’occasione mancata fu la fine del Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino e nel centenario della nascita del Pci, due anni fa, tutta la vecchia guardia ha ammesso che Macaluso e Napolitano avevano visto bene e avevano visto lungo. Ma la battaglia fu persa, non solo per responsabilità della loro corrente minoritaria e neanche per solo per colpa del Pci. Di fatto storia di quel partito è andata da tutt’altra parte. Forse spingendo da tutt’altra parte anche la storia del paese. In realtà però è più corretto dire che se ne e’ andato non l’ultimo, ma – come detto – il “primo” comunista. Il primo a ricevere un visto per volare negli Usa nel 1978, dove va a «spiegare il Pci agli americani», come poi raccontò su Rinascita («Il Pci spiegato agli americani: le conferenze a Harward, Princeton e Yale, le domande degli studenti sulla politica italiana, l’incontro con economisti come Tobin, Modigliani e Samuelson») in pieno sequestro Moro.

Fu più tardi Giulio Andreotti a rivelare di aver favorito quel viaggio per ragioni di stato: «Napolitano poté spiegare agli americani l’evoluzione del Pci e il senso della politica che il suo partito perseguiva in quegli anni». Napolitano in quell’occasione spiego’ a chi considerava il comunismo italiano ancora un’appendice di Mosca, che «il Pci non si opponeva più alla Nato come negli anni Sessanta». Sono le basi del compromesso storico.

Nella famosa intervista rilasciata a Giampaolo Pansa  pochi giorni prima delle elezioni del giugno 1976, Enrico Berlinguer aveva già impresso quella svolta, anche se in termini diversi: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico» aveva detto il segretario, «non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua», sapendo che se «all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», d’altro canto in Occidente «alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Napolitano invece scavalca l’Atlantico per esprimere una linea di «piena e leale» solidarietà agli Stati Uniti e alla Nato; quella che con malizia portò poi Henry Kissinger a dichiarare che Napolitano era «my favourite communist», «il suo comunista preferito».

Napolitano è stato anche il primo comunista a pensare di dimettersi per dissenso con il suo austero e carismatico segretario sassarese, che era stato preferito a lui come successore di Luigi Longo. Ma non era una questione personale, era tutta politica. Siamo nel 1981. Berlinguer a Eugenio Scalfari nella famosa intervista sulla questione morale diede uno schiaffo in piena faccia per la corrente dei miglioristi che si batteva per costruire un rapporto positivo con il Psi di Craxi.

«Eravamo entrambi sbigottiti – ricorda lo stesso Napolitano – perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli altri partiti, ridotti a “macchine di potere e di clientela”, esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci».

Dopo un mese Napolitano, in occasione dell’anniversario della morte di Togliatti, espresse il suo dissenso sull’Unità: attraverso il Migliore contro la linea del segretario. Un gesto fortissimo. I socialisti avviati al governo con la Dc, per bocca di Claudio Martelli, sono sprezzanti. A settembre, in una riunione di direzione, i berlingueriani accusarono Napolitano, lo racconta lui stesso, di aver favorito gli attacchi contro il segretario e di aver nobilitato «il riformismo del Psi» in marcia verso palazzo Chigi, senza e contro i comunisti.

L’articolo sull’Unità, disse Adalberto Minucci, è «un errore politico», bisogna «evitare che in un momento di crisi acuta le opinioni, lecite, di un dirigente possano essere usate come momento di contrapposizione». L’episodio è citato in molti saggi. Vi si sofferma Giampiero Cazzato in «Il custode» (Castelvecchi, 2011), che racconta di un Pci capace di ricomporre i dissensi: di lì a poco Napolitano diventò capogruppo comunista a Montecitorio.

Ma le distanze riesplodono poco dopo con la riforma della scala mobile. È Macaluso a ricordarlo, nel 2005 sul quotidiano Il Riformista. Napolitano «con Formica, capogruppo dei socialisti, aveva trovato un’intesa per rendere il testo accettabile anche per i comunisti. Intesa che poi venne mandata all’aria da entrambe le parti. Ma in quel momento Berlinguer comincia a vedere di cattivo occhio sia Napolitano sia Nilde Iotti, allora presidente della Camera. Da lì in avanti i rapporti si inasprirono a tal punto che quando Berlinguer morì (7 giugno 1984) Napolitano aveva già in tasca la lettera di dimissioni da capogruppo». Una lettera che però non fu mai consegnata.

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