Intervista al calabrese Aldo Maria Morace, professore ordinario di letteratura italiana, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari e presidente del premio “Corrado Alvaro”, che continua ad impegnarsi per far vedere ai non calabresi le sfaccettature più belle della nostra Terra.
Aldo Maria Morace, nato a Reggio Calabria nel 1950, è dal novembre del 2000 professore ordinario di letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, della quale è stato anche preside per cinque anni. È, inoltre, presidente del premio “Corrado Alvaro”, ed ha anche ideato il parco letterario dedicato allo scrittore calabrese.
Qualche settimana, fa ha scritto un commento per il nostro giornale, che ci ha resi molto orgogliosi: “Caro Direttore, mi consenta di esprimerle tutto il mio grato apprezzamento per lo sforzo immane che fa per dar vita e rendere viva la rivista. Da calabrese diasporato, mi creda, è un grande piacere riceverla: appena giunge, la scarico subito e in breve tempo, malgrado gli onerosi impegni, la leggo. Proprio l’accumulo di essi mi ha fatto finora procrastinare sino ad oggi l’espressione di questo forte apprezzamento. Come sa, faccio ogni sforzo possibile per rivendicare la forza culturale che i ‘sudici’ hanno sempre espresso e infuso nella vita nazionale. Ancora grazie e buon lavoro”.
Professore, da calabrese che viene da fuori, cosa ama di questa Terra e cosa le manca di più?
Cosa posso non amare di questa terra? Non si nasce, non si vive per lungo tempo senza stigmi indelebili davanti allo Stretto. A Reggio sono nato, lì tornerò per annullarmi nell’ombra che sradica. D’altronde, ha scritto stupendamente Alvaro che nell’infanzia si compie l’inventario dell’ universo; e così è stato per me, come per tutti. I miei studi sulla letteratura calabrese sono stati anche un atto di amore e di oblazione verso ciò che ho lasciato, perseguendo una carriera accademica che mi ha consentito di attingere vertici ben al di là delle mie iniziali speranze, ma che è stata pagata con lacerazioni interiori non lenite. Mi accorgo di essermi lasciato trascinare dal rimpianto e dalla nostalgia; e, allora, alla seconda parte della domanda risponderò con un pizzico di ironia. Mi manca quasi quotidianamente la rosticceria, di cui sono goloso; e questo produce un surplus di consumo quando sono nella mia città.
Rispetto all’identificazione, degli ultimi anni, di una Calabria criminale, quanto ha sofferto e quanto ha cercato di far conoscere il vero volto di questa Regione?
Ho sofferto e soffro per l’occhio ingiusto con cui si guarda alla fenomenologia di ciò che avviene in Calabria. Quando sono stato coinvolto da presidente (ormai ventennale, o quasi) della Fondazione Alvaro, ciò che più mi ha tentato è stata proprio la possibilità di creare un centro di cultura nella terra più vessata dai mass-media e identificata solo e soltanto in chiave delinquenziale. Possiamo dire, io e tutti i volontari che si sono prodigati in modo ammirevole per farla crescere e vivere, di esserci riusciti, facendo di Alvaro l’icona della Calabria. Che poi in questo ultimo triennio colpevolmente la Regione abbia ignorato questa funzione da noi esercitata, è un altro discorso. Ma confido molto nella nuova gestione, e soprattutto nella vicepresidente regionale, che coniuga in modo esemplare cultura e gestionalità.
Nord e Sud, con quali termini, in sintesi, vorrebbe identificarli?
Nordici e sudici, come con triste ironia ci si identifica. Devo dire che io ho sempre ribaltato la definizione: quando fioriva la Magna Grecia, le plaghe settentrionali erano barbariche, o quasi. È un emblema di nobiltà culturale che non ho mai sradicato dalla mia visione di storico della letteratura. E ogni giorno di più mi professo meridionalista e pratico il meridionalismo in modo rivendicativo, ma non provinciale.
Secondo il suo punto di vista, dal 1861 ad oggi, quali sono stati gli errori del Nord e quali, invece, quelli del Sud?
Il Nord non ha fatto errori nella sua applicazione indefessa di una protervia dirigenziale che troppo spesso è stata colonizzante, anche stupidamente colonizzante, poiché non ha compreso che non poteva e non doveva esserci un’Italia a due velocità, per la quale abbiamo pagato tutti, dalle Alpi alla Sicilia. Noi, invece, troppo tardi abbiamo imparato a leggere la storia postunitaria, prendendo coscienza dei soprusi economici e sociali che erano stati consumati e che continuavano a essere perpetrati. Ci è mancata la coscienza culturale delle nostre potenzialità; e, quando c’è stata, non si è tradotta in azione politicamente efficace, anche perché non siamo riusciti, a parte qualche passata eccezione, a produrre personalità capaci di incidere nella vita della nazione.
Quale potrebbe essere la strada del riscatto del Meridione?
Ha scritto Harold Fisch in ‘Un futuro ricordato’ che il passato, quando diventa carne e sangue, serve a progettare innovativamente il futuro. È la consapevolezza che ci è mancata.
Lei ha scritto: “Faccio ogni sforzo possibile per rivendicare la forza culturale che i ‘sudici’ hanno sempre espresso e infuso nella vita nazionale”. Quanto le è costato?
Nulla: perché sentivo con forza irrefrenabile che ‘dovevo’ farlo; e l’ho fatto, credo con qualche risultato.
Da professore di Letteratura italiana, non crede che quella calabrese sia poco valorizzata sia nel nostro territorio che fuori?
Lo credo fermamente. Ho scritto parecchio di letteratura calabrese, proprio perché mosso da questa ingiustizia; e credo di aver storicizzato, come mai era stato fatto, il romanticismo calabrese, che De Sanctis non a caso poneva in posizione subalterna solo a quello lombardo. Non è stata carità del ‘natìo loco’, né una dimensione rivendicativa in modo provinciale. Ho sempre dimostrato storicamente il rapporto linfatico che la nostra migliore letteratura ha avuto con quella europea.
Il nostro giornale, tra i tanti, ha avuto come direttore Nicola Zitara e Pasquino Crupi. Immaginiamo che li abbia conosciuti, come li descriverebbe?
Di Pasquino sono stato amico, proprio in virtù del nostro differente modo di vivere la letteratura: per lui imprescindibile da un’ottica politica, per me da una dimensione storico-filologica. Mi ha appassionato la lettura del suo ‘Rossi di sera’: è un libro che non merita oblio. Zitara, invece, l’ho soltanto conosciuto. Era un uomo triste, che riteneva a ragione di non aver avuto la circolazione culturale che meritava. L’altro giorno, nel corso di una lezione universitaria sui ‘Vecchi e i Giovani’ di Pirandello, di cui ho da poco pubblicato l’edizione nazionale, ricordavo diffusamente agli studenti il suo ‘Nascita di una colonia’, collocandolo nella storiografia revisionista del compimento unitario. È stato un libro importante, soprattutto per chi è convintamente meridionalista, come me.