Ti vedo, sai, che ci guardi tutti con la tua sigaretta tra le dita, il cappello in testa e una massima pronta da lanciare come una freccia, una di quelle che non mancano mai il bersaglio, cadenzata coi tempi giusti, senza fretta. Lì, con una cravatta fantasiosa e impensabile attorno un altro collo, ma perfetta sul tuo vestito di velluto, troppo sottile, anche con 40 gradi all’ombra. Col papillon come un uomo d’altri tempi, di quelli che non ne vedi in giro facilmente e forse, in tutta una vita, in una quantità che ti bastano le dita di una mano. Un gigante perso tra i tuoi vestiti, giorno dopo giorno sempre più grandi, ma mai quanto basta per contenerci tutto quel cuore, quella testa, quei nervi. Mario, io ti ho visto decine di volte guardare negli occhi, senza mai un respiro fuori posto, i tuoi nemici, messi in fila, tutti in divisa o in armatura, pronti a lanciare l’ennesimo dardo che potesse trafiggerti la carne, nel tentativo vano di lacerarla. Erano tuoi nemici per scelta di vita, con il loro voler stare per forza dalla parte del torto, con la loro tracotanza, tradotta di una distorta filosofia da snocciolare come un rosario, dipinta nelle pieghe della pelle, di una bruttezza rara, in quelle espressioni degli occhi e quelle smorfie sulle bocche di amianto. Tu li fissavi, segnando col tuo sguardo la distanza tra te e loro; loro che volevano sentirsi su un piano più alto e, invece, non erano nemmeno sul tuo, ma molto più in basso, in quel fango che più volte hanno impastato col sangue dei giusti. Ti hanno affrontato come fanno i vigliacchi, unendo le loro immense forze contro uno solo, un Davide che non si è mai intimorito per l’altezza e i muscoli di Golia. Ognuno aveva le proprie armi – di metallo, di carne, di cose invisibili agli occhi – e tu le mani bianche, pulite, che opponevi ad ogni infamia, ad ogni colpo sputato fuori come missile incandescente. Hanno sparato quanto hanno potuto, ma tu sei sempre rimasto in piedi, perché era l’unica posizione che conoscevi. Dall’alto, gettando uno sguardo tra le tue scarpe, stavi lì ad osservare il teatrino di ombre venuto direttamente dall’inferno, provando a calpestarlo e a scacciare le ombre con la luce. Hai combattuto, senza scomporre nemmeno un capello della tua imponente magrezza, della tua forza discreta, della tua rabbia educata. Hai vinto su tutti. Sui vigliacchi nascosti per sempre dal buio delle loro coscienze, sui mostri che mangiano tutto dall’interno, senza chiedere perdono, sugli occhi chiusi della gente, troppo incline a dimenticare e a fidarsi di un futuro che, in virtù di un qualche Dio, restituisce il giusto ai giusti. Ma a te nessuno ha ridato il maltolto, nessuno ha consegnato la verità, che pure hai cercato, inseguito, trovato, scavando con le mani nude una montagna di menzogne. Hanno creduto di aver vinto, di aver tenuto in mano uno scettro che hanno bramato così tanto da svuotarsi le vene, ignari che non c’era nessun trono ad attenderli. Il loro regno si chiude nel palmo di una mano, che basta a coprire l’intera visuale del loro mondo, ristretto per sempre. E tu, che hai avuto la libertà di una vita alla luce del sole, hai vinto pure oggi, scrollandoti di dosso con un colpo di mano le cicatrici di una vita intera, anche se nessuno di noi lo direbbe o vorrebbe dirlo, anche se ci siamo morsi le mani a sapere che gliel’hai voluta fare così. Io so che non aspettavi che questo momento, ormai, per chiedere direttamente a Gianluca di dirti ciò che sapevi già. Ciò che fino alla fine ti hanno negato. La verità. Ma tu, la verità, l’hai spiegata a tutti noi, insegnandoci la giustizia, che si è persa nelle carte e nei marmi ingannevolmente candidi di un teatro enorme, irragionevole, che ti ha condannato a morte tumulando in un silenzio eterno una storia che ha preteso di riscrivere, senza riuscire a farlo. A noi, che adesso cercheremo sempre quello sguardo dietro ad ogni cappello, sperando di vederti apparire dentro al fumo di ogni sigaretta.
Buon viaggio, Mario.
Simona Musco