Il 13 dicembre del 1982, Marco Padovani, viene sequestrato e privato del suo radioso sorriso, della sua passione per le piante e la campagna e dei suoi progetti di vita. Poi, quando l’incubo sembrava finito, nel maggio del 1985, Marco si lascia cadere dal terrazzino, dopo essersi passato intorno al collo una corda lunga due metri. Nessuno comprende quel gesto, nessuno potrebbe.
Non è difficile capire il motivo per cui nessun sequestrato parla della terribile esperienza vissuta, ma è estremamente arduo comprenderne lo stato d’animo durante e dopo la segregazione. Chi può immaginare, se non provandolo, cosa significa rimanere prigioniero, legato con catene fissate al muro, in minuscoli capanni logori, in buche scavate sottoterra, al buio o bendati, senza alcun contatto o, almeno, nessuna relazione con esseri umani? Quali pensieri possono attraversare la mente di chi è ossessionato dalla famiglia che piange, ti cerca, aspetta? Quanto scaverà in profondità l’incessante terrore della morte, la concreta eventualità di non tornare più a casa, di rimanere per sempre sepolto in una buca? I carcerieri hanno parole dure per i parenti che non vogliono pagare, per la famiglia che non preme per la liberazione, che non tiene conto delle lettere che loro stessi costringono a scrivere come prova di vita. Nessuno riesce a esternare le sofferenze patite, le violenze subite nel corpo e, più in profondità, nello spirito. Qualcuno non potrà mai raccontarle perché a casa non ha mai fatto ritorno, ucciso dagli stenti, da una caduta, da un colpo assestato malamente, da una malattia non curata, da un’infezione causata dal taglio dell’orecchio, da un riscatto non pagato interamente, dal lasciarsi morire. Come potrà sciogliersi, dopo la liberazione, quel piccolo nodo che si è formato dentro, in un groviglio di angoscia e sofferenza, se continua a crescere a dismisura invadendo ogni angolo della mente e dell’anima? È diventato pesante, ingombrante, insopportabile. Quanti fantasmi popolano i sogni, quanta ansia si scatena anche solo per uno sguardo strano, per qualcuno che ti viene incontro, per qualcuno che corre dietro di te? Quanto e come, in particolare, si trasforma il mondo di un bambino, che vede sostituirsi i genitori con uomini crudeli, incapaci di affetto, che ripetono che mamma e papà hanno preferito abbandonarlo, che non ha più la sua casa, i suoi giocattoli, le favole e le filastrocche? Quanti e quali sensi di colpa restano dentro, cominciando dall’assurdo pensiero di aver causato un’enorme sofferenza, di aver provocato il collasso economico della propria famiglia e come, facendosi forti o arrendendosi alla debolezza, rispondere che va tutto bene quando, dentro di te, una bestia oscura ti sta dilaniando, sta inghiottendo ogni speranza, ogni ricordo, ogni progetto, in una parola, la voglia di vivere? Tutto resta dentro, silenzioso, nel migliore dei casi confinato nel luogo più buio e nascosto della memoria, come una belva chiusa in gabbia che senti ululare nelle tenebre. Anche Marco Padovani diceva di star bene, di essere tornato se stesso, di aver ritrovato la fiducia e la voglia di andare avanti. Aveva solo ventotto anni e presto avrebbe sposato Barbara che lo aveva aspettato in quei 160 giorni di lacerante prigionia. Bisognava scordare quella mattina del 13 dicembre del 1982 quando lo avevano sequestrato e privato del suo radioso sorriso, della sua passione per le piante e la campagna, dei suoi progetti di vita. Un viaggio lungo, il suo, da Brendola all’Aspromonte nel bagagliaio di un’auto, imbavagliato e incappucciato e poi prigioniero in una cella piccola e umida, al buio, legato con un collare e una catena lunga quasi due metri e fissata al muro. In una radiosa mattinata di maggio del 1985, Marco si trova nella villetta di famiglia sul lago di Garda, da lui sempre particolarmente amato. Osserva sotto di sé l’orto e le piante che curava egli stesso e un senso di liberazione lo avvolge quando si lascia cadere dal terrazzino, dopo essersi passato intorno al collo una corda lunga due metri. Il padre lo ritrova un’ora dopo. Marco ha lasciato un biglietto, nel quale spiega di non farcela più e chiede perdono a tutti. Nessuno comprende quel gesto, nessuno potrebbe.
Cosimo Sframeli