Galileo Violini
1990. Mori Alberto Moravia. Il Corriere della Sera dedicò due pagine al suo ricordo. Nessun accenno alla sua storia familiare. Eppure, per parte di madre, era nipote di Augusto De Marsanich, notizia ghiotta data la sua collocazione politica. E non solo, se è vero che lo slogan del Movimento Sociale Italiano “Non rinnegare, non restaurare”, di cui oggi gli epigoni di quel partito paiono aver fatto propria solamente la prima parte, sia stato proptio suggerito da Moravia. E, per parte del padre, senatore del Regno d’Italia, era imparentato con grandi figure ebraiche italiane, essendo cugino dei fratelli Rosselli, e parente dell’ammiraglio Capon. Ciononostante, nessun commento che fosse di famiglia ebrea, anche se ebreo non era, essendolo solamente suo padre, né, d’altro canto, era stato educato come ebreo. Ma certo, dopo l’8 settembre, questa differenza sarebbe stata irrilevante, per cui saggia fu la sua decisione di non rimanee a Roma.
- Del Boca ancora non aveva svelato di che lacrime grondassero i gas italiani e di che sangue la nostra gloria imperiale in Africa Orientale. Era la X legislatura repubblicana. C’era in Senato un isolato cinquantenne irredentista che amava ricordare del Carroccio il trionfo di Legnano, ma non Cortenuova e, chissà, voleva lavare l’affronto di Federico II che lo aveva regalato, preda di guerra all’odiata Roma. Forse un po’ razzista poteva parere, ma ad uso interno e pareva innocuo.
- Ero francamente convinto che l’Italia non fosse un paese razzista. Avevo avuto compagni di scuola e di sport honduregni e kenioti e nemmeno l’ombra di razzismo nei loro confronti. Solevo dire ad amici stranieri che, mentre se Moravia fosse stato francese, i giornali francesi avrebbero parlato della morte di un écrivain juif, noi italiani eravamo diversi e, a riprova, potevo citare con orgoglio il Corriere della Sera, affermando che per noi era solo un grande scrittore italiano.
Certo, ero conscio dell’esistenza di un razzismo antimeridionale, spesso da stadio, della collocazione di Napoli nel continente nero, cui risposero i dubbi partenopei sui costumi di Giulietta e le relative corna di Romeo, dell’uso igienico del Vesuvio, ma ne minimizzavo l’importanza, contestualizzandolo nell’ambito sportivo.
Poi un lento risveglio, venne Del Boca e seppi dei gas in Etiopia, seppi delle rappresaglie che seguirono l’attentato a Graziani, seppi delle leggi segregazioniste contro il madamato, vidi diffondersi il razzismo, e la violenza, negli stadi, e la crescita del partito del senatore, con giovani dal promettente futuro politico impegnati a esibire, già allora, le proprie doti canore. Questo accadde in quella Pontida che aveva visto il trionfo del Carroccio e la spiritosa canzone parlava dell’effetto sui cani dell’arrivo di napoletani.
Non era piacevole, ma, almeno, sembrava superato uno dei peggiori, o forse dovrei dire il peggiore, dei pregiudizi razzisti, quello antisemita, e un ricoscimento, non solo simbolico, ne fu la legge 211 del 20 luglio 2000, contemperata, dopo le politiche del 2001, dalla legge 92 del 30 marzo 2004.
Un po’ di antisemitismo certo di quando in quando riaffiorava. Qualche svastica a Roma, a Via Cola di Rienzo o viale Libia riappariva, un noto giornalista era tacciato di tirchieria, un “Via gli ebrei dalla RAI”, qualche commento becero sulla senatrice Segre, sgradevoli episodi di antisemitismo tra bambini o ragazzi, molto su George Soros, la cui università fortunatamente era stata espulsa da un governo genuinamente nazionale, quello di Orbán che, non più tardi di nove mesi fa, ha rassicurato i suoi compatrioti sulla purezza della razza ungherese, Non è mista. Forse il caso di Csanád (ora David) Szegedi, ex leader di Jobbik, l’altro partito di estrema destra, avrebbe dovuto fargli sorgere qualche dubbio. Naturalmente, i riferimenti a Soros erano spesso o meglio, inevitabilmente, accompagnati da riferimenti a un piano ebraico quale quello descritto ne I Protocolli dei savi di Sion.
Episodi che mostrano l’esistenza del pregiudizio, ma non permettono di assimilarlo al vigoroso razzismo antisemita di un Giovanni Preziosi o un Telesio Interlandi.
Era molto più violento il razzismo contro gli africani e gli stranieri musulmani contro i quali veniva innalzata la bandiera della civiltà giudaico-cristiana che addirittura alcuni volevano identificare come radice della civiltà europea, razzismo folcloristico, quando una gentile signora rifiutò di farsi visitare da un medico italiano di colore, volgare quando qualcuno pretese di ravvisare nelle fattezze di una ministra somiglianze con i nostri progenitori, criminale quando condusse a efferati omicidi.
Ma come mai mi è venuto in mente, nel 2023, di affliggere il lettore con questi ricordidi gioventù?
Per il semplice motivo che se da quanto ho scritto si volesse dedurre che in Italia non c’è antisemitismo e che il razzismo è un problema marginale,
NON SAREBBE VERO. L’ITALIA È UN PAESE RAZZISTA.
Avevo scritto lo stesso circa sei mesi fa, per un piccolo episodio di cronaca, aggiungendo che me ne scandalizzavo e vergognavo. Lo ribadisco oggi.
Lo prova la nostra legislazione che contiene due monumenti al razzismo, la legge Bossi-Fini e i decreti sicurezza. Lo provano piccoli episodi quotidiani, tra cui ancora primeggiano per risonanza quelli che accadono negli stadi e che condizionano le squadre, fanoso il caso della Lazio, i cui tifosi tappezzarono l’Olimpico con figurine di Anna Frank, e considerarono inaccettabile l’arrivo di Aron Winter, negro ed ebreo.
Legislazione che, ispirata dalla conversione nazionalista del separatismo d’antán, assunti come nuovi simboli, la Nutella migliore dei cioccolati svizzeri. Grana padano e non Camembert e chissà persino la pizza napoletana, si ostina a negare la cittadinanza a bambini nati da genitori stranieri e completamente integrati.
Un’ulteriore prova è quanto è successo dopo la vittoria dell’onorevole Schlein alle primarie del PD e la sua nomina a segretaria del partito. Certo ne sono stati dati commenti politici, ma un certo numero squallidamente accompagnati da note di colore razzista.
E non mi riferisco tanto a quanto ha scritto il sindaco di una città capoluogo, che ha fatto riferimento per lei ai tipici stereotipi antisemiti, ricchezza, mancanza di radici nazionali, accompagnati da un pizzico di commenti da piccolo borghese, figlia di un luminare, per di più ebreo (probabilmente quel sindaco non sa che non perciò è ebrea, così come non era ebreo Moravia) e poi il tocco finale, è bisessuale.
Si potrebbe dire che una rondine non fa primavera e che all’onorevole Schlein queste “accuse” non possono fregare di meno. Al più dovrebbero causare rammarico in chi, nella civilissima Toscana, che in epoca medicea accolse in Livorno gli esuli dalla Spagna, quel sindaco ha votato.
Però ci sono dei limiti invalicabili e una settimana fa sono stati valicati. Sono i limiti imposti dall’etica professionale. Un quotidiano nazionale, e non di destra, valga la precisazione, ha corredato un articolo, tutt’altro che razzista, sia chiaro, con una caricatura e una didascalia, che probabilmente sono state causa di imbarazzo per quello stesso giornalista.
La caricatura sembra uscita dalle pagine del Der Stürmer o da quelle di Difesa della Razza. La didascalia coincide in parte con gli stereotipi cari a quel sindaco, e si riflette in parte nel titolo dell’articolo.
Naturalmente, l’autore dell’articolo non c’entra, ma chi ha disegnato la caricatura? Possibile che non abbia mai visto quelle del Der Stürmer? E chi ha deciso l’impaginazione, la didascalia, il titolo? Il direttore di quel giornale è uomo colto. Possibile che non abbia colto la similitudine con la rivista principe del razzismo italiano?
Qualche benpensante storcerà il naso e mi ricorderà che le idee non si censurano e che, da che mondo è mondo, le caricature esaltano caratteristiche fisiche della persona. Lo so, ne sono convinto, ma vorrei sommessamente osservare che non stiamo parlando di una caricatura di un caracaturista di Piazza Navona, ma di una scelta per illustrare, su un giornale nazionale, un articolo di tutt’altro tenore. Una caricatura soprattutto che non si riferisce ad una caratteristica individuale dell’onorevole Schlein, ma porta con sé una valenza simbolica per le stragi cui quegli stereotipi sono associati e, secondo la mia sensibilità, rappresenta una forma di discriminazione etnica che, nel nostro ordinamento, è fattispecie prevista e punita dalla Legge Mancino.
Tuttavia la sensibilità è soggettiva. Essa è legata alla cultura. Un cultore di Cervantes, che fa dire a don Chisciotte: “¿Y dónde hallastes vos ser bueno el nombrar la soga en casa del ahorcado?” Difficilmente sarebbe incorso negli incidemti, di sola comunicazione?, che hanno accompagnato nei giorni scorsi la signora presidente del Consiglio, con la sua sconcertante domanda ai familiari delle vittime del naufragio di Cutro e il signor vicepresidente del Consiglio, nel giorno del suo cinquantesimo compleaano. Già, ma perché scomodare Cervantes? Si tratta di un proverbio parte della cultura popolare.
Vano questo mio scrivere contro il razzismo? Spero di no, ma comunque continuerò a farlo. E se per questo dovrò diffamare o, come ha detto alla Camera la nostra presidente del Consiglio, “calunniare” l’Italia, lo farò, distinguendo, senza sineddochi, l’espressione geografica, il Paese nella cui Costituzione, antirazzista, mi riconosco, la Nazione, che di Paese non è sinonimo, il Governo, che, se Dio vuole, non durerà in eterno, o criticando un giornale che per altro di solito apprezzo.