Il Sud si libera se accantona le zavorre, si libera se sceglie in modo libero, se spezza ogni legame, anche sentimentale, con un sistema di potere che non ha più alibi e si ripresenta a ogni tornata elettorale con il solito fumo, quel fumo che nasconde la via giusta da seguire. Liberare il Sud significa rinnovare quasi tutte le sue dirigenze, in ogni campo. Perché è lampante che abbiano fallito: loro nelle idee e noi nelle scelte. Liberare il Sud significa non votare più i soliti, non chiedergli favori, non assecondarli nella mediocrità e non fargli più da complici.
To Scìmma, è una bellissima parola in greco calabrese: vuol dire frattura, faglia, scisma. Rottura traumatica. E sono solo le rotture traumatiche, quelle che arrivano dopo la consapevolezza piena, che possono dare avvio alle rinascite. Per evitare le fratture, per non andare a fondo nello scontro: si imbocca più spesso la via del “procrastinare”, del portare cioè gli eventi, i processi sociali, all’estremo delle loro conseguenze negative. In pratica, l’accanimento terapeutico, quando già si sa che il recupero sia impossibile. La rottura traumatica della Calabria con le proprie classi dirigenti, classi politiche, classi intellettuali, classi professionali: rompere con chi non abbia saputo svolgere il proprio ruolo, per calcolo, per malafede, per insufficienza. Ma non rompere con tutti gli appartenenti alle sue classi dirigenti che semplicemente hanno sbagliato, mai per calcolo, malafede, insufficienza. Tagliare con gli irrecuperabili, senza necessariamente buttare via tutto. C’è una riflessione profonda di Florindo Rubbettino, fatta alla Gazzetta del Mezzogiorno: “Credo che soprattutto bisogna puntare l’attenzione su una classe politica meridionale (con le dovute eccezioni) mediocre, che non ascolta, che diserta i luoghi delle proposte e dell’elaborazione intellettuale, ostaggio del cortocircuito delle quattro «C»: consenso, clientele, corruzione, criminalità. Un circolo vizioso che si autoalimenta e che lascia poco spazio, tempo ed energie per l’ascolto di altre istanze, che non consente di tradurre in strategie e policies ambiziose le molte proposte che arrivano dal mondo della ricerca, della cultura, dell’innovazione. Che ignora le sfide internazionali, concentrandosi sul cortile e sui cortigiani”.
Ecco, con questa classe politica meridionale (e con le dovute eccezioni) bisogna rompere. Un intero ceto mediocre va superato facendo scelte di rottura, rompendo gli schemi delle appartenenze partitiche, ideologiche, familistiche. Il Sud si libera se accantona le zavorre, si libera se sceglie in modo libero, se spezza ogni legame, anche sentimentale, con un sistema di potere che non ha più alibi e si ripresenta a ogni tornata elettorale con il solito fumo, quel fumo che nasconde la via giusta da seguire. Liberare il Sud significa rinnovare quasi tutte le sue dirigenze, in ogni campo. Perché è lampante che abbiano fallito: loro nelle idee e noi nelle scelte. E rinnovare le dirigenze significa esporsi: candidarsi, scrivere, parlare. Più che criticare serve uscire dall’ombra: infilarsi nelle amministrazioni comunali, nei circoli di partito, nei cenacoli imprenditoriali, nei circoli culturali. Essere cavalli di Troia per espugnare un palazzo perennemente concentrato “sul cortile e i cortigiani”. Liberare il Sud significa non votare più i soliti, non chiedergli favori, non assecondarli nella mediocrità e non fargli più da complici.