Il carcere è spesso percepito come un luogo distante, quasi astratto, relegato ai margini della società. Tuttavia, dietro quelle sbarre non ci sono solo numeri o fascicoli giudiziari, ma persone. Uomini e donne con storie, legami, speranze e, soprattutto, diritti. Tra questi, il diritto alle relazioni affettive. La recente sentenza n. 10/2024 della Corte Costituzionale ha acceso un faro su un aspetto che per troppo tempo è stato ignorato: il diritto dei detenuti a conservare una dimensione affettiva e sessuale.
Per anni, il sistema penitenziario italiano ha negato questa possibilità, imponendo un controllo visivo costante durante i colloqui e privando di fatto i detenuti di ogni forma di intimità con il proprio partner. Questa decisione non è solo un atto giuridico, ma una svolta culturale e sociale, che ridefinisce il senso stesso della detenzione e della dignità umana.
Nel suo libro Le pene e il carcere, il professore Stefano Anastasia -giurista italiano, esperto in diritto penale e giustizia penitenziaria, noto per il suo impegno nella promozione dei diritti dei detenuti e per la riforma del sistema penale e penitenziario in Italia- analizza la realtà della detenzione e il suo impatto sulla dignità umana. Egli evidenzia come il carcere, anziché limitarsi all’esecuzione di una pena, finisca spesso per amplificare l’emarginazione e annullare l’identità del detenuto. Secondo Anastasia, privare un individuo della libertà non dovrebbe significare privarlo della sua umanità. Il carcere dovrebbe essere uno strumento di reintegrazione, non un meccanismo di alienazione. Eppure, il sistema penitenziario italiano ha spesso adottato un’impostazione punitiva, più orientata ad escludere che a rieducare. In questo contesto, la riflessione sul diritto all’affettività assume un significato profondo: negare ai detenuti ogni forma di relazione intima equivale ad aggiungere una sofferenza ulteriore, una punizione aggiuntiva, che incide sulla loro identità e sul loro percorso di reintegrazione, né prevista né giustificata dalla legge.
L’importanza di questa tematica trova solide radici nella nostra Costituzione.
L’articolo 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, e tra questi rientra certamente la sfera affettiva. L’articolo 3 sancisce il principio di uguaglianza, impedendo discriminazioni ingiustificate. L’articolo 13 protegge la libertà personale, mentre l’articolo 27 stabilisce un principio chiave: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, senza mai ridurlo a una mera esistenza biologica priva di dignità.
Se il carcere non offre una prospettiva di reinserimento, ma si limita ad infliggere sofferenza, allora non sta adempiendo alla sua funzione costituzionale.
Cesare Beccaria -giurista, filosofo e politico italiano del XVIII secolo, noto per il suo fondamentale contributo alla riforma del diritto penale- nel suo Dei delitti e delle pene, ci insegna che una pena deve essere proporzionata e avere una funzione preventiva e rieducativa, non afflittiva o vendicativa. Punizioni eccessivamente afflittive, come la privazione della dimensione affettiva, non rendono migliore il detenuto, ma lo spingono verso un’ulteriore alienazione sociale. Lo stesso Beccaria ci invita a riflettere su un principio che dovrebbe essere lapalissiano: una punizione eccessivamente afflittiva non solo è inutile, ma rischia di trasformarsi in un abuso dello Stato nei confronti dell’individuo. Se il carcere diventa un luogo di mera sofferenza, senza una prospettiva di reinserimento, allora non sta più adempiendo al suo scopo. Lo stesso concetto è stato ripreso da Michel Foucault -filosofo e storico francese, noto per il suo approccio innovativo alla comprensione del potere, della società e delle istituzioni- che in Sorvegliare e punire descrive il carcere non solo come un luogo di detenzione, ma come uno strumento di controllo sociale, in cui il potere disciplina i corpi e le menti. Egli mostra come la privazione della libertà non sia l’unica forma di punizione inflitta ai detenuti: attraverso la sorveglianza costante e la regolamentazione delle loro vite, lo Stato impone un dominio totale, privandoli progressivamente della loro identità. In questa prospettiva, il divieto di coltivare relazioni affettive si carica di un senso più profondo: non si tratta solo di una restrizione materiale, ma di un ulteriore meccanismo di annientamento dell’individualità del recluso. Se applichiamo questo principio alla questione dell’affettività in carcere, emerge chiaramente come la negazione delle relazioni intime non abbia alcuna utilità pratica per il reinserimento sociale del detenuto, e sia invece una forma aggiuntiva di sofferenza non giustificata dal diritto. Perciò, la negazione delle relazioni affettive rientra in questa logica di dominio: non si tratta solo di una restrizione pratica, ma di un ulteriore strumento per sopprimere l’identità del detenuto.
In un’ottica comparata, l’Italia è rimasta indietro rispetto ad altri Paesi, dove esistono da tempo strutture che permettono ai detenuti di vivere momenti di intimità con il proprio partner. In Francia, ad esempio, esistono strutture che consentono incontri privati tra detenuti e i loro partner, regolamentati per garantire sicurezza e rispetto della dignità umana. In Spagna, i detenuti possono usufruire di visite coniugali prolungate, proprio per mantenere i legami affettivi. In Germania, si riconosce che l’affettività è un elemento fondamentale per la rieducazione del detenuto: i colloqui avvengono in ambienti più riservati, senza la costante sorveglianza visiva. Nei Paesi scandinavi, l’approccio è ancora più avanzato: il carcere non è concepito come una punizione, ma come un percorso di reinserimento, in cui la vita affettiva non viene soppressa, ma regolata in modo equilibrato. Al di fuori dell’Europa, anche in Canada e in alcuni stati degli Stati Uniti, esistono programmi di family visits, che permettono ai detenuti di trascorrere del tempo con i propri familiari in ambienti più umani. L’Italia, invece, fino alla sentenza n. 10/2024, è rimasta ancorata a un modello punitivo che ha trascurato la componente affettiva della detenzione.
In un’ottica filosofica, è anche vero che Thomas Hobbes -filosofo e teorico politico inglese del XVII secolo, noto per la sua teoria del contratto sociale e per la sua visione della natura umana come intrinsecamente egoista e conflittuale- nel suo celebre Leviatano, sostiene la necessità di uno Stato autoritario in grado di garantire ordine e sicurezza, poiché l’uomo è naturalmente incline alla violenza e all’inganno nei confronti dei propri simili, come un lupo lo è verso un altro lupo. Tuttavia, Hobbes mette in guardia dal rischio che il potere sovrano, pur essendo fondamentale per la stabilità, non debba mai arrivare a soffocare completamente l’umanità e la libertà individuale dei cittadini. La sua visione di homo homini lupus descrive una condizione di conflitto e ostilità perpetui, dove l’individuo, privato di regole e controlli esterni, sarebbe spinto a perseguire i propri interessi a discapito degli altri, creando un ambiente sociale insostenibile. Ma proprio per questo, Hobbes riconosce che, pur essendo necessario il potere assoluto per garantire la pace, la sua esistenza non può escludere il riconoscimento della dignità e dei diritti umani fondamentali.
Allo stesso modo, Jean-Jacques Rousseau -filosofo e scrittore francese del XVIII secolo, noto per le sue teorie sul contratto sociale e sulla libertà individuale- con la sua celebre frase «L’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene», ci ricorda che le restrizioni alla libertà sono legittime solo se giustificate dal bene comune. Se la pena si trasforma in una privazione assoluta della dignità, allora lo Stato sta abusando del suo potere.
Malgrado ciò, Hans Kelsen -giurista e filosofo del diritto austriaco del XX secolo- con la sua Teoria pura del diritto, separa nettamente il diritto dalla morale: una norma giuridica è valida perché appartiene a un sistema normativo coerente, non perché è giusta. Ma, ad ogni modo, la sentenza della Corte Costituzionale dimostra come, in certi casi, il diritto positivo debba essere reinterpretato alla luce di principi superiori, come la dignità umana. In questo senso, è utile il pensiero di GustavRadbruch -giurista e filosofo del diritto tedesco del XX secolo, noto per le sue teorie sulla relazione tra diritto e giustizia, sostenendo che esistono limiti morali al diritto positivo, affermando che leggi ingiuste, come quelle naziste, non possono essere considerate valide, anche se formalmente emesse dallo Stato- il quale distingue tra diritto positivo e diritto giusto: secondo la sua famosa formula di Radbruch, una norma giuridica che viola gravemente la giustizia non può essere considerata vera legge, lex iniusta non est lex. Applicando questa teoria al caso della negazione dell’affettività ai detenuti, possiamo affermare che una legge che impedisce completamente le relazioni affettive in carcere è ingiusta, e perciò va modificata.
Facendo un excursus storico-filosofico, il parallelismo con la meravigliosa e sublime tragedia Antigone di Sofocle è inevitabile, perché pone al centro il conflitto tra legge morale e legge dello Stato. Creonte, re di Tebe, incarna il potere politico e giuridico che impone regole rigide per garantire l’ordine e la stabilità della città. Egli vieta la sepoltura di Polinice, considerandolo un traditore, e stabilisce che chiunque trasgredisca il divieto sarà punito con la morte. Antigone, invece, rappresenta il richiamo alla giustizia superiore, alla legge divina e morale che impone di dare una degna sepoltura ai morti, indipendentemente dalle leggi stabilite dagli uomini.
Antigone decide di disobbedire a Creonte, affermando che esistono diritti inalienabili, superiori a quelli scritti nelle leggi dello Stato. Per lei, il rispetto della dignità umana è un principio che nessuna autorità politica può calpestare, anche a costo della propria vita. In questo senso, la tragedia di Sofocle non è solo una riflessione sulla tirannia e il conflitto tra dovere e giustizia, ma anche un monito sul rischio di un potere cieco che impone regole in modo assoluto, senza considerare la dimensione etica e umana delle sue decisioni.
La sentenza n. 10/2024 della Corte Costituzionale ha compiuto un atto simile a quello di Antigone: ha riconosciuto che la dignità del detenuto è un principio inviolabile che non può essere sacrificato in nome di una logica punitiva cieca. Per anni, il sistema carcerario italiano ha trattato i detenuti come semplici corpi da punire, privandoli della possibilità di mantenere relazioni affettive e sessuali, come se la pena dovesse tradursi in un annientamento totale della persona. Proprio come Creonte aveva imposto il suo decreto senza alcuna pietà, così il sistema penitenziario ha applicato una normativa che negava ai detenuti un diritto fondamentale senza alcuna valutazione sulla sua effettiva necessità.
La Corte ha ribaltato questa impostazione, riconoscendo che la giustizia non si misura nella severità della pena, ma nella capacità di tutelare i diritti fondamentali, anche di chi ha sbagliato. Il rispetto della dignità umana non può essere considerato un privilegio, ma una condizione essenziale per un sistema giuridico realmente giusto e democratico. In questo senso, l’affettività non è un lusso per il detenuto, ma un elemento fondamentale per il suo percorso di reinserimento.
In ultima analisi, la vicenda di Antigone ci ricorda che un sistema giuridico non può limitarsi ad applicare le leggi in modo rigido, senza interrogarsi sulla loro giustizia e umanità. La Corte Costituzionale ha svolto proprio questo ruolo: ha evitato che il diritto si trasformasse in una fredda esecuzione di norme prive di empatia, ristabilendo un principio essenziale per la tradizione giuridica. La sentenza n. 10/2024 non è solo un passo avanti per i detenuti, ma per l’intero sistema giuridico e democratico. Un ordinamento giuridico giusto è quello capace di bilanciare sicurezza e umanità, dimostrando che il rispetto della persona non è un privilegio, ma il fondamento stesso della civiltà giuridica.
In ultima battuta, un caso emblematico che mette in discussione il sistema penitenziario italiano è quello di Carmelo Musumeci, il primo condannato all’ergastolo ostativo, definito dallo stesso «pena di morte viva», una pena che esclude ogni possibilità di benefici penitenziari, rendendo impossibile qualunque prospettiva di reintegrazione. L’ergastolo ostativo è una forma estrema di detenzione che priva il condannato non solo della libertà, ma anche della speranza di un futuro diverso.
La Corte Costituzionale ha stabilito che l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione italiana, perché viola i principi di uguaglianza e di funzione rieducativa della pena sanciti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione, oltre che il divieto di pene degradanti previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Questo particolare regime carcerario, destinato ai condannati per reati di mafia e terrorismo, impedisce l’accesso a misure come il lavoro esterno, i permessi premio, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale, a meno che il detenuto non collabori con la giustizia.
Uno dei casi più noti di ergastolo ostativo è proprio quello di Carmelo Musumeci, criminale siciliano condannato all’ergastolo per reati di mafia, tra cui omicidio. La sua pena, formalmente, sarebbe dovuta terminare il 31 dicembre 9999, tra quasi 8.000 anni. Entrato in carcere con solo la licenza elementare, durante la detenzione ha studiato, si è laureato tre volte e ha scritto diversi libri, diventando un punto di riferimento nel dibattito sui diritti dei detenuti.
Oltre alla sua battaglia per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, Musumeci si è fatto portavoce anche della lotta per il diritto all’affettività dei detenuti. Ha sottolineato come la reclusione non debba privare una persona della possibilità di esprimere amore e mantenere legami affettivi con i propri cari. In una lettera-appello, Musumeci ha raccontato la sua esperienza personale, evidenziando la sofferenza derivante dall’impossibilità di condividere momenti di intimità con la sua compagna, nonostante il loro legame durasse da oltre ventitré anni. Lo stesso Musumeci ha lanciato una petizione su Change.org, con la quale sottolinea come la possibilità di coltivare i propri affetti sia fondamentale per la dignità umana e per il percorso rieducativo del detenuto.
La privazione dell’affettività e della sessualità in carcere rappresenta una punizione invisibile ma potentissima. Molti detenuti soffrono per la mancanza di contatto umano, che può portare a frustrazione, nervosismo e dolore sia fisico che psicologico. Garantire momenti di intimità ai detenuti potrebbe contribuire al loro benessere e favorire un reinserimento sociale più efficace.
Nel 2019, il giornalista Antonino Monteleone lo ha intervistato per Le Iene, raccontando la sua incredibile storia di trasformazione. Dopo 27 anni di reclusione, Musumeci ha ottenuto la libertà condizionale con una sentenza storica del Tribunale di Perugia. Oggi vive in un convento e si dedica al volontariato. Il suo percorso dimostra che il cambiamento è possibile e che la giustizia non può essere cieca di fronte al riscatto e alla dignità dell’essere umano. La battaglia di Carmelo Musumeci mette in luce l’importanza di rivedere le politiche penitenziarie italiane, affinché vengano riconosciuti e tutelati i diritti affettivi dei detenuti, in linea con le pratiche adottate in altri Paesi europei. Il diritto all’affettività non è un privilegio, ma una componente essenziale della dignità umana, che non può essere annullata dalla privazione della libertà. Negare ai detenuti la possibilità di coltivare legami affettivi significa condannarli a un’ulteriore pena, non prevista dalla legge, che rischia di compromettere il loro percorso di reinserimento sociale.
L’abolizione dell’ergastolo ostativo e il riconoscimento del diritto all’affettività rappresentano passi fondamentali per un sistema penale più giusto e umano, in cui la pena non sia solo un castigo, ma anche un’opportunità per recuperare il legame con la società.
La funzione rieducativa della pena, sancita dall’articolo 27 della Costituzione, non può realizzarsi se il detenuto viene privato della possibilità di mantenere rapporti con i propri cari. In quest’ottica, la sentenza n. 10/2024 della Corte Costituzionale segna una svolta fondamentale: ribadisce che la giustizia non si misura nella severità delle restrizioni, ma nella capacità di coniugare sicurezza e umanità.
Un sistema penitenziario che nega l’affettività non è solo più crudele, ma anche meno efficace nel suo scopo di prevenzione e reinserimento. L’Italia ha ora l’opportunità di allinearsi alle migliori pratiche europee, superando una concezione della pena punitiva e afflittiva, adottando una visione che metta al centro l’individuo e la sua possibilità di cambiamento. La società chiede giustizia, ma vuole vendetta. Ma la giustizia non è vendetta. La giustizia è equilibrio. Non può esistere vera giustizia senza rispetto per la dignità umana, anche dietro le sbarre.