Chiamato alle prove del dopo Draghi, l’appello delle urne il Pd ha mostrato per intero la sua fragilità, qualcuno parla di indefinitezza, di evanescenza, al netto del ruolo giocato dalla legge elettorale. C’è chi parla di processo (ri)fondativo, chi di fissare la sua identità, sono ricorrenti i richiami ai padri fondatori, mentre il dibattito intorno la mission, il target degli elettori verso cui indirizzare il suo messaggio è l’aspetto che forse merita attenzione più di altri temi, insieme a quello che vorrebbe la sua definitiva scomparsa. A volte le arabe fenici risorgono, altrimenti che arabe fenici sarebbero, altre volte no. Parlando del Pd rifarsi alla figura mitologica non è fuori luogo.
A volte le arabe fenici risorgono, altrimenti che arabe fenici sarebbero, altre volte no.
Parlando del Pd e la cosa rischia d’essere stucchevole visto che, se non si è filogovernativi, è il passatempo di tutti o quasi, anche di chi di politica non si è mai occupato, rifarsi alla figura mitologica non è fuori luogo.
Chiamato alle prove del dopo Draghi, l’appello delle urne il Pd ha mostrato per intero la sua fragilità, qualcuno parla di indefinitezza, di evanescenza, al netto del ruolo giocato dalla legge elettorale. C’è chi parla di processo (ri)fondativo, chi di fissare la sua identità, sono ricorrenti i richiami ai padri fondatori, mentre il dibattito intorno la mission, il target degli elettori verso cui indirizzare il suo messaggio è l’aspetto che forse merita attenzione più di altri temi, insieme a quello che vorrebbe la sua definitiva scomparsa. A ben vedere le due cose sono fra loro intrecciate, solo velate da uno schermo di ipocrisia di coloro che, invocando il ritorno al Pds o simili, di fatto auspicano il deprofundis dell’esperienza che Veltroni volle far nascere.
Cosa significano l’una e l’altra cosa è presto detto: imboccare la scelta del partito del liberalsocialismo comporta una decisa adozione di politiche rivolte a ceti medi produttivi di matrice professionale e borghese, lasciando a sinistra un serbatoio di voti non indifferente cui dovrebbe dare rappresentanza una forza marcatamente di sinistra con valori di eguaglianza e redistribuzione in testa a ogni altro. Ripartire, dopo questo Pd indefinito, con un target marcatamente di sinistra significa un ritorno alle origini di quelle che furono le politiche dei partiti del secolo scorso, lasciare in balìa di sé stessi ceti del cosiddetto centro, oscillanti fra richiami astensionistici o rivolti alla destra, recuperare simpatie di quanti a sinistra hanno finora gridato al tradimento.
Se pure detto sinteticamente, è questo il nocciolo, nudo e crudo, della questione.
È chiaro che l’una e l’altra scelta contengono al loro interno ulteriori sottolineature di non poco conto: fra le altre quella di candidarsi alla guida dei processi e far propria, perciò, l’opzione per così dire maggioritaria, da una parte e dall’altra dedicarsi a un ruolo di rappresentanza e di sollecitazione e non già di assunzione di responsabilità. Non è rinvenibile, a mio parere, un’ipotesi che contempli la convivenza di entrambe le ‘anime’ all’interno dello stesso partito, come un tempo accadeva per quello che furono il Pci e la DC dove erano evidenti le diverse ‘sensibilità’, in più di un caso e per non pochi motivi, evidentemente fra loro confliggenti. Non lo è per le differenti condizioni storiche (allora c’era il muro, c’era l’URSS, c’erano i grandi partiti di massa a forte caratterizzazione ideologica), ma sopra ogni altra cosa perché oggi è il momento di scegliere: non è più possibile indugiare, occorre rischiare. E ogni rischio comporta, è noto, la possibilità di sbagliare: solo che non scegliere è anch’esso un rischio, anch’esso implica l’evenienza dell’errore.
A pochi mesi dall’appuntamento congressuale, a oggi si registrano due autocandidature palesi, entrambe emiliane: la prima del presidente della Regione, la seconda della sua vice. L’asse sembrerebbe orientarsi verso il Nord e non a caso partendo da una terra dove storicamente il Pci aveva un fortilizio agguerrito. Solo che Bonaccini appare da subito inviso e non è poca cosa, alla componente comunista del Pd-è stato definito sprezzantemente ‘il primo arrivato ‘-forse per i suoi trascorsi di vicinanza con il reietto Renzi e, inoltre, è da registrare che difficilmente da Roma in giù riscuoterebbe grandi simpatie viste le sue non isolate esternazioni sul regionalismo differenziato. Schlein, dal suo canto, per ora, raccoglierebbe il beneplacito di Prodi e di chi è più orientato a sinistra come Provenzano-ma è tutto da verificare.
Sul versante esplicitamente liberalsocialista, perlopiù presente fuori dal partito, ma non marginalmente insidiato in thinktank di discussione e proposta spesso teorici, non si rilevano candidature di alcun genere.
Le scissioni, in specie a sinistra, sono state invise e considerate come tabù da evitare, dopo le storiche e disastrose esperienze, alcune pure recenti, ma oggi come oggi, oltre a presentarsi come probabili, l’andare ognuno per la propria strada forse più che una jattura sarebbe un atto di chiarezza e di onestà intellettuale, che quasi mai si rinvengono in politica ma, si sa, c’è sempre una prima volta.
Massimo Veltri