Matteo Lo Presti commenta le reazioni alla morte di Michela Murgia, analizzandone la commovente e rigorosa sfida al dolore che ha messo in campo, e come questa il senso di una riflessione che aiuta, in emozione solidale, a trasformare in inattesi sviluppi, l’interpretazione del male.
Matteo Lo Presti
Michel Murgia, di fronte alla sua sofferenza, ha mostrato forze sconosciute e inattesi sviluppi. Ha proposto un itinerario ingegnoso ed inventivo, ha escogitato metodo, strumenti, ed arte che nel loro insieme creano la civiltà. Il tutto dominato da una stupenda riflessione riassunta in una sola parola: “politica”.
Sarebbe inesatto dire che è il dolore, in quanto tale, la forza che muove il mondo ma, senza dubbio, il dolore crea le premesse e le occasioni di ogni attività. Michela Murgia non si è mai smarrita o persa nell’anonimato, non per ambizione esibizionistica, ma per un’indomita esigenza di testimoniare la sua presenza in mezzo a uomini e donne, ai quali donare il senso della propria responsabilità sociale e alla ricerca di utili solidarietà che possano dare senso alla parola” politica”. Cioè, al vivere nella polis, nella città, i problemi che uno affronta anche nel cammino verso la morte.
Con stupefacente generosità intelligente, mostrando i suoi sorrisi di fronte alle forbici del parrucchiere che sfrondava la sua bella capigliatura, Michela Murgia ci invitava a guardare la sua indomita supercompensazione alle sciocche interpretazioni della debolezza femminile. Chiede al contrario Michela Murgia a chi viveva nel suo contesto sociale, di darsi un’etica della concordia, della solidarietà, mentre persiste l’ammirazione per i persecutori, i sopraffattori quasi che i caratteri della violenza e della crudeltà, della bellicosità siano indelebili nella natura umana. Come volesse affermare una perenne verità “La mia vita e la mia morte sono problemi di tutta la comunità. Sono del mio vivere la politica”.
Nelle ripetute interviste che abbiamo udito in questi giorni Michela Murgia viveva una dimensione di sfida e di solitudine verso le ipocrisie della società nella quale abitiamo. Di qui tante lacrime di coccodrillo tardive.
Aveva il volto ironico di chi il mondo delle regole sciocche, che impone obbedienza passiva, suscitasse l’idea che il “purus gramamticus” fosse un potenziale “purus asinus”. Come la senatrice che con fragile intelligenza, per non dire di peggio, chiedeva qualche giorno fa alla presidenza del Senato (assente La Russa) di chiamarla “senatore” come aveva scritto la corte d’Appello nel momento della sua elezione. La Murgia avrebbe replicato “Ecco un’altra donna con il complesso di inferiorità nei confronti del maschio” e ne avrebbe riso amaramente.
Sapeva Michela Murgia, nella sua isolata dimensione esistenziale, di dovere molto lottare per dare senso ad un cammino che fosse ricco di valori, rispettoso dei diritti di tutti, dai membri delle famiglie comunque costruite, ai lavoratori che cercano giustizia sociale, agli intellettuali ai quali non si debbono imporre censure o critiche popolar- fasciste. Proprio il fascismo, luce nera di una storia con la quale la società italiana ha sempre difficoltà ad allontanarsi e che oggi acquista solo il senso di una retorica tesa a rassicurare fragili intelligenze come cento anni fa con la paura del social – comunismo. Paura corroborata dai “padroni del vapore” capitalista.
Solo una nobile interpretazione della politica, il richiamo ad un comune girotondo solidale, dal quale non escludere nulla nel labirinto della vita. Anche la morte nella sua tragica tappa finale, se condivisa in un cordoglio “politico”. Non chiedeva Michela Murgia un balsamo, un sollievo alla sua risaputa sorte. Ha cercato di seminar fiori di vita anche nella celebrazione del suo matrimonio prima della immatura dipartita.
Ma quasi nessuno ha capito o voluto capire il suo massaggio. Nessuna forza politica le ha aperto le porte delle sue strutture. Nessuna delle forze politiche che dipingono in superficie l’aspirazione ad un mondo interpretato, non si dice “marxista”, ma almeno liberal – progressista, ha elogiato il suo impegno. L’individualismo e il relativismo sociale che appanna anche le nuove generazioni ha impedito che la sostanza testimoniale delle scelte di Michela Murgia avesse una visibilità oltre le trasmissioni televisive. Anche la segretaria del PD Ely Sclhein ha speso parole intense sulla artista deceduta. Ma prima nessun abbraccio collaborativo. E poi perché ai funerali troppe assenze e nessun avversario politico?
Sono sempre mancate azioni per dare alla sua voce un palcoscenico non virtuale. Oggi la sinistra sembra avere trovato, solo nell’ambito di una cerimonia funebre, valori fondanti in limine mortis della prospettiva di un mondo migliore. Un’ occasione persa. Michela Murgia ha volato alto e pochi hanno capito il suo messaggio che pretendeva di lasciare il mondo migliore di come lo aveva trovato.
Rimane una riflessione sentimentale, come scrive il poeta Giorgio Caproni “Non mi cercate là dove non sono mai andata. Rimango sempre nei vostri cuori”. Basterà per onorarla?