Per quanto riguarda la fiction di Raiuno “La sposa”, che racconta la storia di un matrimonio per procura, ambientato in Calabria, non voglio entrare nel merito delle ragioni e del fascino che una simile narrazione di una prassi sociale abbia suscitato nel decidere di produrla, ma lascio alcune considerazioni che credo possano essere ritenute ragionevoli.
In un’epoca nella quale si riduce ogni valore ed ogni esperienza ad una visione sintetica e veloce della vita come il senso di appartenenza, rara qualità nazionale, diventa interessante quando accade che esso si manifesti anche nelle piccole realtà locali, magari regionali. È il caso della Calabria e della ricaduta in termini di gradimento della fiction Rai La sposa. Una storia di un matrimonio combinato, una fotografia secondo l’obiettivo del regista degli anni Sessanta in Calabria, promossa da Piemonte Film Tv Fund e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e girata dovunque, ovviamente, ma non in Calabria. Una storia di un matrimonio per procura e dai significati diversi che a questa pratica, non solo in uso al Sud, si possono dare e che non affranca nessuna esperienza di vita delle altre regioni della penisola negli stessi anni. Non entro nel merito delle ragioni e del fascino che una simile narrazione di una prassi sociale abbia suscitato nel decidere di produrla siano esse il riscatto di una donna forte e coraggiosa per affrancare la famiglia dal bisogno o altro. Tuttavia, al netto delle possibili opinioni di stile, lascio alcune considerazioni che credo possano essere ritenute ragionevoli. La prima è sul piano della scelta di dare un senso di mercato, quasi un mercimonio sgradevole, del matrimonio per procura, quasi come se la Calabria fosse, la terra per spose in vendita, una sorta di Zanzibar all’italiana del XX secolo. I modi e i termini della contrattazione dicono tutto, ed è un peccato che la produzione non si sia fermata a riflettere sul messaggio che tali scene avrebbero sotteso e poco importano le finalità della promessa sposa che al senso di riscatto fa da cornice un dramma senza fine che avvolge tutto e tutti: protagonisti e spettatori. Il secondo è come e in che misura non sia ancora oggi possibile scrivere una storia diversa di una terra che della semplicità del passato ne aveva fatto uno stile di vita, dove la parsimonia era virtù in costumi che aborrivano il crimine relegandolo a patologia da curare, senza dare vetrina o aprire credito per povertà. Se fossimo obiettivi, infatti, dovremmo riconoscere che tutto questo lo abbiamo permesso, perché abbiamo scelto di fare della Calabria il luogo di un romanzo criminale fine a se stesso, senza speranza di vedere una luce oltre le pagine impregnate di sangue e di miseria. Un romanzo che ci avvolge tutti in una sindrome di Stoccolma per la quale non solo ci rassegniamo alla versione noir che invade le vetrine e i bookshop delle stazioni e degli aeroporti, ma celebriamo il salvatore o il sacerdote di turno, meglio se proveniente da altre latitudini e magari con una rendita mediatica spendibile da poter sfruttare pro domo propria. Eppure, se guardassimo L’albero degli zoccoli potremmo dirci figli, seppur lontani, di una comune storia italiana di marginalità e di sfruttamento, ma questa con risultati diversi. Dagli zoccoli portati dovunque, in Italia e all’estero i contadini veneti di ieri sono diventati imprenditori e ben altro, rimettendo capacità e conoscenze, oltre che capitali, alla loro terra con efficacia e amore, sposandola in nozze mai più combinate. La Calabria, invece, continua a vivere remissivamente in un continuo divorzio con la sua storia, con le sue migliori risorse, senza regolare i conti con una deprivazione culturale che dura da tanto… troppo tempo, permettendo a chiunque di sposarne una parte di essa come meglio crede e alle sue condizioni.
Giuseppe Romeo