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martedì, Dicembre 3, 2024
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I Casalinoviti: Come nacque la ‘ndrangheta

Pubblichiamo l’introduzione del libro “Mio nonno Rocco” scritto da Rocco Palamara.

La rivoluzione

Avevo sei anni e mezzo il 26 maggio 1955 quando anch’io fui mandato a fare la rivoluzione. Da giorni alle Scole montava una strana euforia che esaltava soprattutto i ragazzini con alcuni che sprizzavano gioia da tutti i pori vantandosi che loro ci sarebbero andati con la corriera a fare la rivoluzione!

Io li invidiavo ritenendoli dei gran fortunati perché pensavo di non poter condividere quel privilegio, dal momento che quella cosa detta rivoluzione era da farsi nientemeno che nella “lontanissima” marina – inteso Bova Marina a un’ora di corriera da Bova – finché un bel giorno mia madre mi chiamò a sé e mi disse:

– Domani vai pure tu alla marina a fare la rivoluzione!

Detto guardandomi dritto negli occhi e sorridendo altera come per un’orgogliosa investitura.

Andare nella mitica marina, dove non ero mai stato! Il grande mare, dove i coraggiosi marinai tagliavano le spaventevoli trombe marine, da vedere finalmente da vicino. Credo che non dormii quella notte! In realtà non sapevo che il mare non l’avrei visto che da lontano, come sempre, anche quella volta.

Erano allora passati quasi quattro anni dall’alluvione e per le case che ci spettavano si disponeva niente più che qualche altalenante assicurazione, mentre anche le altre 78 case in fase di rifinitura potevano finire anch’esse dritte in mano agli africoti.

Quella che nella nostra ingenuità chiamavamo rivoluzione doveva partire dal campo profughi di Bova Marina dove erano alloggiati la maggior parte dei paesani, tra cui anche la famiglia dei miei zii Giovanni e Mimma, genitori di mio cugino Rocco.

La mattina appresso mia madre mi preparò lavandomi col sapone la faccia fino a tutto il collo, come faceva quando mi cambiava i vestiti. Mi pettinò con più cura e mi mise la camicia buona. Mi spiegò, come sapeva fare lei quando voleva infondermi buonumore e fiducia, del grande compito di cui mi investiva, che era nientemeno quello di rappresentare la nostra famiglia in quella rivoluzione dove ogni famiglia doveva mandare almeno uno dei suoi. Per quanto ci toccava, occorreva che andassi io, dal momento che mio padre non c’era perché andato alla ventura in Francia dove si era introdotto clandestinamente in cerca di lavoro. Sebbene fossi così piccolo, io valevo quanto un adulto nel nostro modo di contare dove la presenza anche solo simbolica aveva il suo valore. Poi mi accompagnò fino alla corriera con una federa di cuscino riempita di cose che mandava ai miei zii Giovanni e Mimma e mi affidò per il viaggio all’altro mio zio, Sebastiano, in partenza anche lui per lo stesso motivo e con un’altra sua figlioletta, mia cugina Nunzia di tre anni più grande di me.

Percorrendo tutti in discesa le famigerate curve di Bova in un tempo che mi sembrò lunghissimo, giungemmo finalmente in un costone roccioso con buona vista sulla valle del Siderone al di là del quale si profilavano le case di un paese, e sotto di noi nella campagna un grande e vecchio palazzo in capo a una grande distesa di baracche col tetto di lamiere luccicanti.

Ancora un paio di chilometri di curve e giungemmo a un bivio presso le prime case dell’estrema periferia di Bova Marina. La corriera si fermò e noi scendemmo per proseguire a piedi lungo una carrettiera attraverso vasti giardini nella direzione opposta a quella dalla costa.

Andando avanti arrivammo in un tratto lungo e dritto in cui la strada era fiancheggiata da alte mura, percorrendolo sbucammo su un torrentello asciutto oltre i quale si apriva un grande spiazzo con ben in vista la prima fila delle baracche avvistate poco prima dalla corriera. Eravamo giunti al campo profughi di Bova Marina quasi tutto abitato da paesani nostri.

Quello stesso giorno arrivarono là anche i santopetroti, altri da Casalinovo, quelli di Scrisà e altri ancora da Petrapennata e da Motticella di Bruzzano, ovvero i casalinoviti di tutte le contrade ospitati e alloggiati per la notte da parenti e amici.

Passato in consegna agli altri miei zii, rividi finalmente mio cugino Rocco che non incontravo dai tempi della fuga da Casalinovo. Passammo tutto il giorno a dirci le cose continuando per un po’ anche di notte prima di addormentarci da un capo e dall’altro dello stesso lettino.

Ancora notte, sentii i tocchi ritmati di un tamburino che passava davanti alla baracca. Il suono si allontanava quasi fino a spegnersi quando sentii, stavolta vicinissima, la voce di mio zio che scuotendoci un poco ci diceva:

– Forza e coraggio giovanotti, alzatevi che l’ora è arrivata!

Poco dopo io e mio cugino ci portammo fuori della porta trovandoci di colpo in un mondo quasi irreale: un fermento di voci, rumori in un via vai di ombre concitate. Poi, con lo spuntar del giorno, ogni cosa prese il suo colore e quello dei visi delle persone era illuminato da una strana allegria tra la festa e una gran voglia di combattere.

Uomini e donne di tutte le età si concentravano lungo un grande viale che attraversava in verticale l’intera baraccopoli dove alcuni giovani gesticolanti strillavano a gran voce:

– I cotrari avanti! Tutti i cotrari avanti! Presto, camminate!!!

– Andiamo che ci chiamano anche a noi! – Disse mio cugino a cui mia zia aveva raccomandato di tenermi sempre per mano.

I “cotrari” nel nostro dialetto erano i bambini, e nel caso nostro solo quelli maschi.

Seguendo gli altri sbucammo in un piazzale sterrato largo e lungo che si estendeva davanti alla prima fila di baracche, ma che in fondo si restringeva come in un imbuto e che a vederlo meglio era lo stesso del nostro arrivo mentre la strettoia in fondo era l’imbocco della strada murata già percorsa e che già conoscevo.

A cominciare proprio dalla strettoia, altri giovani si davano da fare a metterci in fila per due ed in ordine di altezza, motivo per cui fui separato da mio cugino che era più alto e accoppiato a un cotraru basso quanto me.

Scrutando in avanti notai che la prima coppia era formata da bambini così piccoli da essere appena in grado di camminare mentre quelli che mi stavano davanti erano già una fila lunghissima fatta di bambini tutti più piccoli di me. Ma molti di più erano quelli che, girandomi, potevo vedere alle mie spalle. Dopo quelli appena più grandicelli di me, c’erano in sequenza i ragazzi di primo pelo, i giovanotti e poi le femmine di tutte le età che notavo con le vesti più chiare alla fine del piazzale dove però il corteo curvava e scompariva dietro le baracche, senza che vedessi la fine.

Il corteo appariva ordinato e numeroso. Eppure neanche ciò sarebbe servito a qualcosa se gli organizzatori non avessero pensato anche come arrivare a Reggio davanti alla Prefettura, che era l’obiettivo primario della manifestazione. Altre volte i poliziotti avevano bloccato il corteo prima che si arrivasse a Bova Marina, figurarsi lasciarci raggiungere Reggio! E se la protesta non si portava nella città capoluogo la stampa ci avrebbe snobbati come anche le autorità.

Ma come arrivare alla stazione e prendere il treno per Reggio era stata la preoccupazione maggiore del ristretto numero di paesani che già nei giorni precedenti avevano curato in tutta segretezza un piano d’azione dove al primo posto c’era il modo per eludere il blocco della polizia.

Come degli strateghi consumati, nel piano preposto erano state valorizzate tutte le nostre risorse nonché le opportunità offerte dal territorio, i tempi e le distanze, il passaggio dei treni e la psicologia dei poliziotti che avrebbero mandato per fermarci.

Tra il campo profughi e Bova Marina c’erano quei vasti giardini di bergamotto dentro  cui era possibile spostarsi senza essere visti; mentre per raggiungere il paese c’erano due vie: quella regolare andando dritto per la strata murata, con un percorso di due  chilometri fino alla statale 106 e un altro lungo la litoranea fino alla stazione; e la scorciatoia di meno di un chilometro che dal torrentello all’imbocco della strada murata portava al Siderone e da là al centro abitato.

Si sapeva che dalla rotabile per Bova, che ci sovrastava, i poliziotti avrebbero osservato ogni movimento nella baraccopoli e questo era trasformato in un vantaggio dagli ideatori del piano affinché quelli vedessero bene come il corteo avrebbe tirato dritto sul percorso regolare della carrettera, e non svoltava per quello accidentato della scorciatoia. Ciò affinché quel lato rimanesse sguarnito, per poter essere praticato attraverso i giardini dalla parte più mobile della popolazione sacrificando, per così dire, quella meno manovrabile di donne, vecchi e bambini, mandati avanti come corteo civetta per accentrare su di sé l’attenzione dei poliziotti.

Non poteva passare per la testa a quei militari di professione, allevati nelle accademie e a uso manganellare masse disomogenee di protestatari, che una piccola popolazione apparentemente così male in arnese fosse capace di strategie sofisticate e in grado di applicarle come un vero esercito professionale. Non di meno anche noi avevamo “reparti” di elementi ben motivati e disciplinati: le DONNE, ubbidientissime ai mariti e quindi affidabili per la parte a loro assegnata; gli UOMINI, cresciuti col mito dell’azione che non potevano sfigurare davanti agli altri paesani; e i BAMBINI, col loro entusiasmo e potenzialità tattiche, se ben utilizzate.

Che dei bambini anche piccolissimi potessero costituire una risorsa tattica fu un’intuizione geniale in quanto mettendoci in fila per due il corteo si allungava a dismisura, celando meglio ciò che accadeva in coda; e con l’esporci in quella maniera si fingeva una patetica esibizione atta a dissimulare una strategia più complessa e raffinata.

Noi piccoli non stavamo nella pelle per il partecipare a quel grande gioco insieme ai grandi e della cui importanza ne faceva fede l’elettrizzante cartello che svettava su un’asta alla testa del corteo. Il ragazzo che lo sosteneva ogni tanto lo girava dalla nostra parte accogliendo ogni volta un coro di ovazioni, vista la scritta: “O LA CASA O LA TOMBA” e con le esplicite figure di una casetta e una bara più che comprensibili anche a quelli che non sapevamo leggere. A reggerlo era il dodicenne Bruno Ferraro mio dirimpettaio alle Scole di Bova che ben ci rappresentava in sé come figura: occhi neri e capelli neri e ricci, fisico d’atleta e sguardo sicuro con un sorriso di sfida stampato nel suo viso.

Non c’erano altre insegne né bandiere nel corteo della Rivoluzione.

A un segno, Bruno alzò il cartello e iniziò a camminare. Seguendolo, i primi bambini si mossero e tutti quanti ci apprestammo a seguirli mano mano a nostra volta. Dal mio punto di visione vedevo le testoline davanti agitarsi ed il corteo allungarsi fin quando, finalmente, anch’io e il mio compagno muovemmo il primo passo. Proseguendo nel cammino, dopo un bel po’, arrivando all’imbocco della strada murata, mi voltai vedendo come in fondo al corteo, dopo la massa chiara delle donne, seguiva quella più scura degli uomini che spuntavano da dietro le baracche.

In quell’ordine di marcia l’intero corteo muoveva lungo la carrettera verso la periferia sud di Bova Marina.

Lentissimamente, con il passetto dei più piccoli, procedemmo per quella via in leggera salita e con le mura ai lati che ci eclissavano agli occhi dei nemici, mentre dal lato di Bova Marina si apriva un grande portale con accesso ai giardini.

Dopo un tempo che pareva interminabile, arrivammo in un punto più scoperto dove alla nostra sinistra c’era una fattoria con grandi alberi di eucalipto. Avanzando ancora e dopo un paio di curve sbucammo in un ampio spiazzo con fattorie da entrambi i lati e con davanti a sinistra il grande muraglione tondeggiante della rotabile per Bova, ormai prossima a congiungersi alla pianura.

Il bel gioco continuava per noi piccoli che procedevamo mano in mano come da scolari nelle gite. Girando intorno al muraglione in un tratto tutto in piano, arrivammo in una terza e più lunga fattoria da dove vidi stagliarsi la rotabile per Bova proprio nel punto in cui terminava la carrettera e dove il giorno prima ero sceso con mio zio dalla corriera. L’ultimo tratto ritornava leggermente in salita culminando in un dosso, raggiunto il quale Bruno ricevette l’ordine di fermarsi, e appresso a lui l’intera colonna mano mano si arrestò.

Arrivati a quel punto avevamo percorso circa un chilometro, e non so quanto ci volle per coprirlo con gli estenuanti passetti dei più piccoli; ma qualunque fosse il tempo è certo che questo era stato minuziosamente calcolato dagli uomini affinché potessero svolgere nei tempi giusti la loro parte. Ed infatti intanto, senza che né noi davanti potessimo vedere e né i poliziotti dall’alto accorgersene, la massima parte degli uomini ci aveva lasciati staccandosi dal corteo e introducendosi nei giardini per attraversarli non visti fino a ridosso di Bova Marina. A quell’ora, mentre i poliziotti più avanti ci attendevano pensando di bloccare là l’intera popolazione, loro erano appostati sotto gli alberi a ridosso del paese e pronti a raggiungere celermente il treno al suo arrivo alla stazione.

Un altro segno e Bruno riprese il cammino, superò il dosso e girò a destra sulla rotabile per Bova Marina. Dopo un poco mi sparì dalla vista per via del dosso e di un uliveto che nascondeva quel lato della strada tutto in discesa, fin quando arrivai anch’io al culmine della salita e potei guardare da quell’altra parte. Il mio occhio curioso di bambino fu attratto dall’immagine inconsueta della bianca e alta torre di una carcara che si ergeva su un pianoro a sinistra nel lato a monte; ma guardando dritto nella linea della strada e del corteo vidi dietro a un torrentello e a un ponte che lo sormontava un’altra sorte di costruzione, stavolta verdastra e scura, che chiudeva l’intera carreggiata. Era una muraglia umana tutta fatta di poliziotti.

Frattanto Bruno era arrivato a pochi metri dal ponte e proseguiva, in alto il cartello, puntando dritto verso la muraglia come se quel blocco grigio e brutto dovesse aprirsi come per magia. Calò allora uno strano silenzio con nessun altro rumore se non quello della breccia smossa della strada. Il vociare dei bimbi si era interrotto e nessuno quasi più fiatava. Bruno invece, per nulla intimorito, precedeva spedito e distaccandosi persino dalla testa del corteo. Poiché mi trovavo in alto, ho chiare le immagini di Lui che avanza sul ponte fino a trovarsi al centro quando i primi bambini dietro iniziavano appena ad attraversarlo.

Fu allora che quel silenzio innaturale venne rotto da boati fragorosi seguiti dal pronto propagarsi di un fumo grigio, denso e puzzolente sgorgante da certi ordigni sparati dai poliziotti che tiravano a parabola con i fucili.

Allora per lo spavento i miei ricordi si interrompono. Poi mi vedo arrampicarmi su per il costone insieme ad altri bambini altrettanto terrorizzati. Gli occhi e la gola mi bruciavano, vedevo appena e stentavo a respirare, mentre da dietro mi giungevano rumori convulsi frammisti a urla, pianti e voci concitate.

Non vidi o comunque non ricordo che ne fu dei più piccoli dell’inizio del corteo; il loro shock fu certo terribile e non so in che modo vennero recuperati. Di certo è che Bruno se la cavò alla grande portando in salvo anche il cartello che venne esibito ancora nelle altre fasi della giornata.

Tra le donne la percezione del pericolo fu sconvolgente. Divise tra l’istinto di correre incontro ai figli che scappavano e quella di scappare a loro volta, furono sul punto di cadere nel panico e disperdersi quando un Gianni Palamara detto u Cucuzzaru, che aveva fatto la guerra e capì che quelle che tiravano erano solo bombe lacrimogene, corse avanti gridando:

– Non fuggite, femmine! che per queste non morite! – E insieme ai pochi altri uomini che seguivano nel corteo si parò davanti alle donne per rassicurarle sulla natura non letale degli ordigni; mentre, per meglio convincerle, altri raccolsero delle bombe ancora fumanti e le rilanciarono verso i questurini.

Le donne ripresero coraggio, e incitandosi a vicenda si raccolsero vocianti al centro dell’incrocio. Gli spari cessarono e col diradarsi del fumo si vide come laggiù sul ponte anche i questurini si muovevano intruppandosi nella carreggiata. Poi si videro avanzare a ranghi serrati fino a una ventina di metri dall’incrocio, quando accelerarono e caricarono in salita.

In quel momento ero ridisceso sulla strada e stavo vicino alle donne, molte delle quali incinte o con in braccio dei bambini. Esse gridarono agli uomini di stare indietro affinché non venissero arrestati, poi si preparano allo scontro tenendosi strette braccio sotto braccio e quando i poliziotti le raggiunsero vidi le due masse cozzare in modo drammatico.

Iniziarono a colpirle con i manganelli e poi anche col calcio dei fucili, ed esse risposero con graffi, insulti, sputi e grida rabbiose. Nella confusione della mischia ricordo distintamente Peppina Mollica, con gonna e maglia chiare, cadere a terra con un gran grido: gli avevano rotto un braccio con una botta col calcio del fucile.

Allora gli uomini, che prima erano rimasti indietro convinti che le donne non sarebbero state toccate, saltarono davanti applicandosi nella strana tattica di strappare i berretti ai poliziotti e lanciarli in aria. E ciò ancora per evitare di colpirli, perché a quel tempo solo a sfiorare una divisa erano anni di carcere.

La “mossa” diverrà di moda molti anni dopo negli scontri del ’68 quando venne codificata dai sociologi quale atto scientifico per sminuire i poliziotti della loro autorità. Per i miei paesani fu invece la risposta al mancato rispetto delle donne e i berretti strappati e lanciati per aria la trasposizione delle loro stesse teste in segno di sfida e di disprezzo per quell’offesa inaudita. L’azione li distrasse un po’ perché tanti dovettero rompere le file per raccattarsi i berretti, salvo poi rilanciare ancora più rabbiosi. E fu allora che cominciarono gli arresti di uomini e anche di donne. Si portarono via due dei Priolo, Peppina ferita e alcuni altri strappati dalle mani dei compagni che cercavano di salvarli.

Un altro Palamara,’Ndria u Manneddì, tra gli azzoppati del morbo misterioso e pertanto inabile a seguire gli uomini per i giardini, aveva arrancato dietro il corteo aiutandosi con due bastoni. Esausto, si era adagiato sul bordo della strada per prendere fiato quando un celerino andò lì per deriderlo:

– E anche tu qua?!…

E ‘Ndria a lui:

– Io qua faccio per numero uno!!! – E alzato uno dei bastoni gli assestò un colpo dritto in faccia. Arrestato anche lui.

In un crescendo di rabbia e di esasperazione Dominica a l’Ursa, che teneva in braccio Gioacchino, l’ultimo suo figlioletto, venuta a diverbio con un altro poliziotto glielo lanciò in faccia per ferirlo con quello, gridandogli:

– Rischio il figliolo ma a te ti rompo il muso!

Episodi anche grotteschi, ma memorabili. Come nelle storie dei Paladini anche noi avevamo la nostra epica gloriosa, che si arricchiva di altri capitoli da raccontare nelle lunghe conversazioni serali tra vicini.

Si stazionò ancora lì, tenendo il centro della strada, bloccando il collegamento con Bova, e fronteggiando la polizia in un tira e molla a tratti più disteso e a tratti guerreggiato finché, dopo una ennesima e più violenta carica dei questurini, mi trovai nuovamente staccato dalla massa a correre con altri ragazzini su per i tornanti della rotabile inseguiti da alcuni poliziotti imbestialiti. Sul punto di venire raggiunti ci gettammo per la campagna dove vagammo per terre brulle e accidentate fin quando trovammo un sentiero che ci ricondusse al campo profughi dove corsi subito da mia zia per raccontarle le cose tremende che erano accadute. La mia parte nella rivoluzione poteva dirsi terminata …

 

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