Ho partecipato lo scorso fine settimana a due iniziative pubbliche, a Siderno e a Reggio Calabria, dove si è discusso della sinistra, di dove era e di dove si trova ora. Due iniziative assai partecipate, con centinaia e centinaia di persone. Si è tentati e si tenta di andare oltre la nostalgia, di leggere con gli occhi di oggi e di domani quel che si potrebbe fare. Prendere, cioè, atto che l’esperimento del Pd è finito, salvando e non disperdendo forze che sono comunque necessarie per la rinascita della sinistra italiana, dopo che un’invenzione chiamata “Pd” è riuscita a portarla ad una condizione di debolezza mai avuta in quasi 80 anni di storia repubblicana.
Ho partecipato lo scorso fine settimana a due iniziative pubbliche, a Siderno e a Reggio Calabria, dove si è discusso della sinistra, di dove era e di dove si trova ora. Due iniziative assai partecipate, con centinaia e centinaia di persone. Tutte animate da una storia, ma ognuna con una propria visione del futuro. C’era chi non aveva votato affatto alle ultime elezioni, chi aveva votato PD, chi 5 Stelle, chi Sinistra Italiana, chi Pci, chi De Magistris.
Una gran confusione sotto il cielo avrebbe detto il comandante Mao, foriera di buoni risultati diceva lui. Ma non in questo caso io credo.
Questa gran confusione e disgregazione non credo, infatti, sia foriera di buoni risultati e di buoni approdi se, per ultimo, si pensa che ieri si è riunita l’assemblea nazionale del PD (oltre mille persone) in modalità da remoto (!) per discutere del congresso che (forse) sarà e forse no e discutere di anticiparlo con una mezza dozzina di candidati a segretario che però non hanno detto che vogliono, che linea hanno, con chi, dove, come etc. etc.
Molto, perciò e ben giustificato, il malessere in quelle due significative assemblee, emblematiche di sentimenti assai diffusi e larghi in tutto il paese. Molta anche la nostalgia per il tempo che fu, soprattutto nella bellissima presentazione sabato sera a Reggio Calabria di un libro sugli uomini della scorta di Enrico Berlinguer. Ma, pure, si è tentati e si tenta di andare oltre la nostalgia, di leggere con gli occhi di oggi e di domani quel che si potrebbe fare.
Non c’è più innanzitutto una comunità, dunque un senso di appartenenza, che solo un partito (qualsiasi sia) ti può dare. Manca una unicità della lettura dell’Italia di oggi. Manca la politica intesa come partecipazione vera. E mancano tante altre cose. È ovvio che la disgregazione tremenda che a Siderno e a Reggio abbiamo visto in tutta la sua plasticità se va avanti può portare ad un solo unico risultato: la scomparsa non di un’idea e di un mondo di sinistra, ma della sua rappresentazione politica nei termini giusti e non di singoli pezzetti del 3-4 %, insignificanti per potere svolgere davvero un ruolo di aggregatore.
Ecco, dunque, il punto: chi dovrebbe raccogliere questo malessere profondo? Chi dovrebbe farsene interprete e tentare una difficile, difficilissima operazione di traversata nel deserto tessendo una rete? È evidente che ci sono responsabilità, vecchie e nuove, di tutti gli attori di questa disgregata Sinistra, ma è altrettanto evidente che le principali responsabilità ricadono indiscutibilmente sul PD, in preda anche oggi – quasi a fine novembre 2022 – ad una afasia drammatica.
Siamo vicini, oramai, ad un punto di non ritorno, per il Pd. Su tante, troppe cose (tra cui la collocazione internazionale dell’Italia e la posizione sulla guerra, ma non solo), in un partito non possono convivere posizioni diametralmente opposte. In un partito ci possono e ci devono essere opinioni e proposte diverse, su tanti campi delle politiche, e su queste ci dovrebbe essere un dibattito politico e procedure democratiche per decidere la linea. L’afasia di cui sembra vittima il Pd non è un accidente: nasce dalla mancata definizione dell’identità politico-culturale di questo partito. È come se, in un estenuante tiro alla fune, si arriva oramai ad un punto in cui tutto rischia di sfilacciarsi, fino allo strappo. Mancando una cornice comune, ogni questione produce rotture e divaricazioni. E non ha senso, come è accaduto anche a Siderno e a Reggio, richiamarsi al caso storico del PCI, dove convivevano posizioni molto diverse: quel partito e in quel momento aveva una sua identità storico-politica (si chiamava non a caso “comunista”) e una sua visione del mondo. Oggi non c’è più e bisogna farsene una ragione.
Il Pd invece voleva essere, sin dall’inizio, un partito “post-ideologico”, che si reggeva sui programmi: i fatti hanno dimostrato che questo modello non può funzionare, per il semplice motivo che, quando sui “programmi fondamentali” ci sono idee molto diverse (non solo sulla pace e la guerra, si pensi solo alle politiche del lavoro), un partito non si tiene assieme.
Per questo, secondo me e la dico con la più brutale consapevolezza di un passaggio drammatico, il Pd non può che proporsi un chiaro e duro confronto chiarificatore e se non lo fa, forse andrà ancora avanti per un po’. Nessuno deciderà di scioglierlo, ma si scioglierà da solo, per consunzione. Speriamo che il congresso dia qualche risposta, ma non vedo al momento una siffatta condizione (si parla solo di nomi ma niente dopo due mesi dalla scoppola elettorale emerge sul piano politico, delle idee, dei programmi etc. etc.) e alla fine la soluzione migliore per tutti è forse che vi sia una separazione consensuale, senza drammi, senza lacerazioni.
Prendere, cioè, atto che l’esperimento del Pd è finito, salvando e non disperdendo forze che sono comunque necessarie per la rinascita della sinistra italiana, dopo che un’invenzione chiamata “Pd” è riuscita a portarla ad una condizione di debolezza mai avuta in quasi 80 anni di storia repubblicana. Per andare dove? Ognuno si dedichi a quello che sente di dover fare: costruire un serio partito liberaldemocratico, se si vuole (potrebbe essere anche opera meritoria riuscirci, in Italia, con questa destra); oppure rifondare una sinistra socialista nel nostro paese. Ma nel guado non si può restare oltre.