I giudici della Consulta hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che non consentiva la riservatezza delle comunicazioni tra detenuto sottoposto al carcere duro e il proprio difensore. Si tratta di una decisione che ha una portata ben più ampia delle sue immediate e dirette conseguenze: ritengo, difatti, che essa presupponga un’analisi, ed una comprensione del fenomeno mafioso attuale, ben più pregnante rispetto allo storico approccio all’antica mafia rurale dei riti e degli uomini d’onore.
I giudici della Consulta hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che non consentiva la riservatezza delle comunicazioni tra detenuto sottoposto al carcere duro e il proprio difensore (sentenza 24 gennaio 2022, n. 18, riferita all’art. 41-bis, co. 2-quater, lett. c, dell’Ordinamento penintenziario).
Si tratta di una decisione che, in disparte qualche sguaiato ed incolto commento dì chi identifica l’avvocato col difeso e presume una sua collusione, ha una portata ben più ampia delle sue immediate e dirette conseguenze: ritengo, difatti, che essa presupponga un’analisi, ed una comprensione del fenomeno mafioso attuale, ben più pregnante rispetto allo storico approccio all’antica mafia rurale dei riti e degli uomini d’onore.
Un approccio che impone dì affrontare il fenomeno, dal punto dì vista giudiziale, con riguardo ad una organizzazione criminale ben più evoluta e raffinata, che ha superato gli angusti confini economici del territorio poverissimo sul quale operava: così misero al punto che, all’epoca dei sequestri dì persona (anni ‘70) i farmacisti, certamente benestanti, ma ben lontani dall’essere ricchi, apparivano come dei Paperoni e vennero rapiti in massa.
Grande differenza dai tempi del mio liceo e della mia università (fine anni ‘60, anni ‘70), quando nella sola provincia dì Reggio dì Calabria si contavano più dì centoventi morti l’anno. Oggi è diverso; l’omicidio Fortugno è di sedici anni fa e, salvo errori, non ne ricordo altri nella mia Locri.
Diverso anche il regime carcerario dell’epoca. Lo attesta una cronaca di Pietro Melia su La Riviera, che raccontava dell‘intervento, negli anni ‘70 del boss ‘Ntoni Macrì, su richiesta del Procuratore della Repubblica dell’epoca, per sedare una rivolta nel carcere di Locri. Ma anche Giovanni Falcone, il quale, lo ricordo nitidamente, in un’intervista televisiva denunciava come un boss rinchiuso nell’Ucciardone, potesse continuare a comandare all’interno ed all’esterno del carcere.
Era un mondo diverso che ci si è illusi di affrontare con norme finalizzate ad affievolire, in alcuni casi fino a praticamente annullarli, i diritti degli indiziati di mafia; creando presunzioni (aberranti, secondo la mia concezione del diritto) per favorire l’azione accusatoria e stabilendo pene sempre più severe, abdicando completamente al precetto costituzionale di carcere rieducativo.
In questo contesto storico si è affermato, con una successione di leggi praticamente ininterrotta, il regime del carcere duro del 41-bis: norma introdotta dalla legge legge Guzzini del 1986, che prevedeva un particolare regime in casi di emergenza interno alle carceri, al fine di ripristinare l’ordine e la sicurezza. Con l’aggiunta, dopo la strage di Capaci del 1992, di un secondo comma (d.L. 8 giugno 1992, n. 306) che consentiva l’applicazione di quel regime ai detenuti per mafia con l’obiettivo di impedire il passaggio di comunicazione tra criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio. Misura con carattere temporaneo, limitata a un periodo circoscritto: temporaneità che consentì il superamento delle (fondatissime a mio avviso) eccezioni di incostituzionalità. Al regime attuale, praticamente senza fine (basta pensare al barbaro ergastolo ostativo), si perviene per una legge del “mafioso” governo Berlusconi, che abrogò la disposizione che sanciva il carattere temporaneo della disciplina (L. 23 dicembre 2002, numero 279), aggravato, infine, con la legge 15 luglio 2009, n. 94 che ha prolungato i nuovi limiti temporali.
Tra le misure carcerarie c’era pure quella della non riservatezza delle comunicazioni tra avvocato e cliente: un’aberrazione da dittatura caricaturale, che è stata opportunamente rimossa dalla Consulta.
Decisione che, affermando nobili principi di diritto, non indebolisce il contrasto alla mafia: lo rende, invece, adeguato, mostrando l’inutilità di leggi riferite ad un fenomeno mutato. O chiarendo che il contrasto non si fa ipotizzando una macchietta di avvocato, come quella disegnata da chi ha urlato alla resa verso la mafia: uno stereotipo da commedia, ben lontano dalla realtà professionale.
La situazione attuale è, infatti, completamente differente.
La mafia dì oggi parla in italiano (magari anche in inglese), è laureata, conosce la finanza internazionale, sa come operare con gli strumenti informatici. Non ha bisogno di dotarsi di mezzi finanziari coi metodi antichi.
Prendere atto di ciò significa da parte dello Stato di dovere dedicare maggiori risorse – direi una vera e propria “intelligence” (intesa in senso anglosassone) – e formare investigatori con specifiche competenze, per fronteggiare fenomeni che forse oggi neppure sono intuibili.
Ma anche capire che il collegamento – necessario – della mafia col territorio si può contrastare solamente con una azione politica, che offra alternative e contrasti l’arruolamento di nuovi adepti.
È un fatto che più di trenta anni di antimafia, con retate, processi e maxi processi, agevolate da norme la cui incostituzionalità verrà d’ora in poi sempre più spesso evidenziata, non hanno neppure scalfito un fenomeno che oggi, essendosi addirittura evoluto, è quanto mai vivo, pericoloso e forte.
Ma che è meno solido dello Stato di diritto e delle sue garanzie: Stato così solido da applicare diritto e garanzie perfino ai criminali.
Tommaso Marvasi