Accadde in un giorno di Febbraio di 215 anni fa, i contadini calabresi scelsero il male minore accorrendo numerosi sotto le insegne del Cardinale Ruffo e si opposero poi alla seconda calata dei francesi con una guerriglia accanita che impressionò l’Europa.
Di fronte al modernismo peloso della classe colta e benestante della cosiddetta Repubblica Partenopea, costituita dopo la fuga del Re e l’entrata a Napoli dei francesi nel 1799, i contadini calabresi scelsero il male minore accorrendo numerosi sotto le insegne del Cardinale Ruffo che andò ad abbatterla; e si opposero poi alla seconda calata dei francesi con una guerriglia accanita che impressionò l’Europa e fece da modello alla più famosa “guerriglia spagnola”; guadagnandosi però la damnatio memoriae e la denigrazione sistematica per essere stati dalla parte sbagliata della storia.
Quando i Francesi ritornarono in forze nel 1806, gli aspromontani temettero più degli altri le ritorsioni dei nemici in quanto proprio dall’Aspromonte erano partite le prime squadre della costruenda armata del Cardinale; e quando a dicembre arrivò la notizia che il terribile capitano Misnil aveva proceduto alle fucilazioni presso l’abitato di San Luca quelli delle valli più internate pensarono fosse giunta l’ora di prepararsi al peggio. Due mesi dopo, infatti, toccò ad Africo essere attaccata dai soldati.
A quel punto della loro avanzata le truppe di invasione francesi, sostenute dalla solita borghesia locale, avevano rioccupato Napoli e quasi tutta la parte continentale del regno; mentre i Borboni attestati in Sicilia, dove si era rifugiato il Re con tutta la corte, tenevano ancora la punta estrema della Calabria ivi compreso Africo e Casalinovo con alle spalle la piazzaforte di Bova.
E fu in questa situazione precaria che avvenne il fatto che gli anziani dei detti paesi tramandavano con la dicitura: “Quando cacciammo i francesi”. Raccontandolo senza enfasi o cipiglio guerriero ma come un banale fatterello accaduto nel lontano “tempo dei briganti” o, appunto “ … dei francesi”. I fatti vennero poi riportati nel libro storico, “IN TERRA DI BOVA” del 1927, dall’illustre bovese Antonio Catanea, cominciando con le testuali parole:
“…nel 1807 il territorio di Bova venne a trovarsi quasi al limite di occupazione e devastato dai Francesi e dai Borbonici: In tale anno il comando francese aveva deciso di sottomettere l’abitato di Africo, posto più avanzato dell’occupazione borbonica e che per difficoltà di difesa era stato abbandonato a se stesso. Un giorno del febbraio 1807 due compagnie di volteggiatori francesi (circa 150 soldati – n.d.a.) si presentarono improvvisamente alle porte del paese: gli abitanti sorpresi cercarono dapprima di impedire l’entrata, ma sopraffatti dal numero si allontanarono rifugiandosi sui monti vicini e richiedendo rinforzi a Bova, dai loro rifugi però osservarono che i nemici non contenti di aver conquistato il paese mettevano tutto a fuoco; ritornarono allora furibondi combattendo eroicamente contro un nemico più volte numeroso e costringendolo ad abbandonare la preda e parte delle armi e degli stessi bagagli.
Giungeva frattanto il colonnello Vincenzo Veneti con una massa di diverse centinaia di volontari: questi unitisi agli Africoti ed ai Casalnuovesi rastrellarono tutta la zona circostante, uccidendo i ritardatari e costringendo i pochi superstiti a veloce ritirata verso San Luca.”
Nel suo stringato resoconto Catanea non si sofferma nei particolari della battaglia (il suo libro spazia su molto altro) tramandati però dai paesani, come l’episodio di una donna che si attardava nella fuga, sorda – sembrava – ai richiami dei compagni: ma perché invece raggiunta alle spalle dalle pallottole dei soldati.
Dopo l’impatto iniziale e la fuga, gli africoti andarono a rifugiarsi su un monte più internato nell’Aspromonte dove misero al sicuro le famiglie, e nei cui paraggi, prima dei rinforzi da Bova parecchio più lontana, accorsero i vicini casalinoviti ai quali forse neanche fu chiesto l’aiuto data l’antica rivalità tra i due paesi. L’apporto dei casalinoviti fu però determinante, come tramanda un dittu con riferimento ai “francisi” e – verosimilmente – anche la decisione di anticipare l’attacco senza aspettare i rinforzi da Bova si concretizzò col loro arrivo.
Nell’incalzare degli eventi, i soldati, costretti a lasciare il paese e ancora inseguiti, cercarono di riguadagnare il sentiero a Nord, da dove erano arrivati, dovendo però percorrere un primo tratto verso Est nella direzione di Bova andando fatalmente all’incontro dei bovesi in arrivo. Furono così presi in mezzo e nuovamente battuti tra le querce di Carrà, il grande bosco a un chilometro dal paese. Ma com’è potuto accadere che nella battaglia dentro Africo dei miseri montanari male armati e senza preparazione militare avessero avuto la meglio su soldati di elite ben addestrati, meglio armati e – secondo Catanea – persino più numerosi? Non si tramandano i particolari della battaglia ma, conoscendo i luoghi, la mentalità, l’agilità fisica acquisita per lo stile di vita e l’arma tipica dei paesani (pastori e contadini) che era la ben maneggevole ascia leggera col manico lungo dall’ampio raggio d’azione, possiamo immaginare un attacco calato dall’alto: rapido, semi-celato dal fumo degli incendi e uno scontro corpo a corpo dentro il centro abitato come mai i francesi avrebbero potuto aspettarsi da dei civili “battuti”.
Nelle tortuose viuzze e dai bassi tetti, adatti a repentini spostamenti e agli agguati, gli improvvisati gruppi di combattimento – solidali all’estremo perché composti da fratelli, cugini, padri e zii votati al massacro o ad essere tutti massacrati – prevalsero sui drappelli di ufficiali e soldati costretti a uno scontro inusitato in cui poco servirono loro i fucili e le sciabole contro l’audacia africota.
Il trauma per il comando francese fu rilevante come si evince dal proseguo del racconto di Catanea:
“ …Giuseppe Monteleone da Fabbrizia detto “Runca” (roncola – n.d.a.) temuto capo-massa borbonico dopo avere tentato invano un assalto contro Sinopoli allora in potere dei Francesi erasi ridotto ad accamparsi fra Africo e Casalnuovo ove la truppa francese agli ordini del La Rue che l’inseguiva, memore dell’episodio di pochi mesi prima, non ardiva attaccarlo….”
L’incomodo ospite con i suoi ben 400 briganti dovette alloggiarsi nel grande bosco detto del Castanito strategicamente posizionato nella biforcazione tra due fiumare. In quanto all’altro bosco, quello di Carrà, per la quantità degli uccisi gli rimase la nomea di “bosco degli spiriti” e fin oltre 150 anni dopo i bambini avevano paura ad andarci; come già allora i presuntuosi francesi!
Rocco Palamara