Viaggio nella storia della Locride, attraverso la penna di Bruno Gemelli che ricorda la famosa battaglia di Punta Stilo del 9 luglio del 1940.
Bruno Gemelli
Ricorre quest’anno l’83° anniversario della Battaglia di Punta di Stilo che avvenne il 9 luglio 1940 al largo della costa jonica calabrese. Fu la prima battaglia navale a cui partecipò l’Italia nella Seconda guerra mondiale dopo che, il 10 giugno 1940, aveva dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Una battaglia che mise in luce una serie di errori che poi non furono più ripetuti. Alla fine della battaglia, entrambi le parti immediatamente dichiararono vittoria e lo scontro si trasferì dalle acque dello Jonio ai bollettini di guerra ed annunci radio, ovviamente largamente falsificati. In verità, l’ascendenza morale vantata dal Roskill, ed altri autori a seguire, fu in realtà il risultato di un’ottima campagna propagandistica orchestrata da Londra. Una lettura più attenta dei documenti storici riproduce una realtà alquanto differente, ma alla fine si può concludere che la battaglia di Punta Stilo fu uno scontro pari. Dare a Punta Stilo la semplice etichetta di uno “scontro”, solamente perché le perdite furono minime, screditerebbe la tenacia delle due flotte e particolarmente il loro livello operativo e abilità marinaresca. Questa fu una battaglia d’eccellenza, quella combattuta così tante volte nelle aule delle Accademie navali di tutto il mondo. La battaglia corroborò, e sotto alcuni aspetti demistificò, molte teorie e dottrine navali, specialmente nella Royal Navy, fino al punto di cambiare in modo sostanziale gli schemi di battaglia. Soffermandosi solamente sui documenti dell’Ammiraglio Cunningham, si scopre come questo fantastico comandante, immediatamente dopo la battaglia, suggerì un diverso uso delle corazzate e richiese l’immediato trasferimento d’incrociatori antiaerei e portaerei nel Mediterraneo.
Le perdite di uomini ci furono, specialmente da parte italiana che non disponeva ancora né di radar né di portaerei. E nei fondali al largo di Monasterace, vicino a luogo dove furono trovati di Bronzi di Riace, giace il relitto del cacciatorpediniere italiano affondato durante il brevissimo ma inteso conflitto. Durò dalle 15,15 alle 16,04. Gli anziani del luogo ricordano ancora quel giorno. Hanno ancora nelle orecchie il rombo delle cannonate che giunsero fin sulla costa dal largo antistante dove si fronteggiarono la Regia MarinaItaliana e la RoyalNavyo Mediterranean Fleet che dir si voglia.
Sull’argomento sono stati scritti molti libri, il più completo dei quali è quello di Francesco Mattesini dell’ufficio storico della Marina italiana. Ma c’è anche bellissimo libro di controinformazione, “Fucilate gli ammiragli – La tragedia della marina militare italiana nella seconda guerra mondiale”, (Mondatori, 1987, pag. 323), scritto dal compianto giornalista Gianni Rocca, allora vice direttore di Repubblica. C’è anche un prezioso contributo filmato dell’Istituto Luce che ci è stato fatto vedere dal regista calabrese Giovanni Scarfò. Un documento di parte perché redatto dalla propaganda fascista ma ugualmente efficace perché mostra l’organizzazione della nostra flotta nel teatro di guerra. Lo scontro navale avvenne il 9 luglio 1940. Il 31 marzo 1940 Benito Mussolini era entrato in guerra a fianco della Germania nazista per onorare il Patto d’acciaio. Quella battaglia fece discutere molto perché, nell’immediatezza, i contendenti dichiararono la vittoria attraverso bollettini di guerra e annunci radio largamente falsificati. Essa fu classificata dalla pubblicistica del tempo come scontro consensuale, ma accidentale. Consensuale perché entrambe i comandanti superiori in mare decisero di dare battaglia dopo che la loro missione principale, la scorta dei convogli, si era conclusa o, nel caso degli inglesi, posposta. Accidentale perché, come appena detto, la missione principale era la scorta convogli e non la battaglia in sé. Va rilevato che all’inizio della battaglia gli italiani avevano già completato con successo la loro missione di scorta mentre i britannici l’avevano rimandata e non la completeranno fino a dopo la fine dello scontro. Insomma, sebbene l’ammiraglio Alberto De Zara l’avesse poi definita «una breve giostra di mare», Punta Stilo fu vera e propria battaglia a causa delle forze navali coinvolte: ben cinque corazzate ed una portaerei. La flotta italiana, comandata dall’ammiraglio Inigo Campioni, era composta da due corazzate (Giulio Cesare e Cavour), 6 incrociatori pesanti e 9 leggeri e 16 cacciatorpediniere, più il naviglio di appoggio.
La flotta britannico-australiana, comandata dall’ammiraglio Andrew Cunningham, era composta da 1 portaerei, 3 corazzate, 5 incrociatori e 16 cacciatorpediniere ed alcuni sommergibili. In quel tratto di mare prospiciente la costa calabra s’incrociarono la bellezza di 90 navi in un solo colpo. Agli italiani fu affondato un cacciatorpediniere, mentre la corazzata Cesare e un incrociatore furono seriamente danneggiati. Una battaglia che fece scuola perché, dopo di allora, divenne materia di studio in tutte le accademie navali del mondo e, comunque, dopo quello scontro si combatté in maniera diversa in ogni mare del globo. Il punto debole dell’Italia fu di non avere un coordinamento tra le forze aree e quelle navali, aggravato dalla mancanza di una portaerei e dell’appesantimento burocratico dei nostri apparati. Di controla Regia Marinasi distinse per coraggio e abnegazione. Le forze in campo, dal 5 all’8 luglio, si preparano allo scontro: le navi italiane partirono dalle basi di Napoli e Taranto per scortare convogli mercantili, quelle inglesi salparono da Alessandria d’Egitto per Malta e seppero della presenza nemica all’altezza di Capo Spartivento (tra Brancaleone e Palizzi). Poi il 9 luglio il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina Italiana emanò, alle ore 6, il seguente dispaccio: “Reparti navali espletato il compito di protezione del convoglio si dirigono nel punto di riunione fissato nel golfo di Squillace in base alle direttive del Capo S.M. Generale, per assicurare, nella giornata del 9, l’incontro col nemico, coprendo nel contempo, tutto il nostro settore costiero contenente i suoi probabili obiettivi; stabiliti agguati sommergibili in due zone: 5 sommergibili ad est Sicilia, 9 sommergibili accesso occidentale canale di Sicilia, 2° divisione navale in rotta per Tripoli”. Le due flotte s’avvistarono che erano battute le 15. Un pomeriggio assolato, mare calmo. Mezz’ora per posizionarsi in formazione di combattimento. Il primo colpo fu sparato alle 15,20 dall’incrociatore Orion, da oltre 24 mila metri. Risposero le corazzate inglesi, ricambiarono il fuoco la Cavour e la Cesare che fu colpita al fumaiolo poppiero da una bordata da381 mm. Erano le 15,59. L’ammiraglio Campioni lanciò al contrattacco i cacciatorpediniere per proteggere il grosso della formazione in ritirata. Alle 17,30. giunsero i bombardieri italiani da Catania e dalla Puglia ma purtroppo non colpirono le navi nemiche, anzi sfiorarono quelle amiche. Le navi italiane più colpite, Cesare e Bolzano, ripararono a notte fonda nel porto di Messina. Fu l’epilogo del dramma. Così il commento di Rocca: «La battaglia di Punta Stilo si concludeva nel ridicolo. Quando gli equipaggi rientreranno nei porti siciliani sarà impedita la franchigia. Si temevano incidenti con gli avieri per le strade. (…) Punta Stilo, in poche ore, aveva messo a nudo tutte le nostre deficienze. La guerra con gli inglesi era una cosa tremendamente seria: non avevamo più di fronte i poveri abissini». Dopo la guerra, il generale Santoro, lo storico ufficiale dell’Aviazione, pubblicò una lista completa di tutti gli attacchi condotti dalla Regia Aeronautica. Gli apparecchi involti furono soprattutto Savoia Marchetti S.79 e S.81 ed alcuni Cant Z.506. Nessun aeroplano era equipaggiato con il siluro dato che quest’arma, nonostante le varie prove, non era stata ancora autorizzata per l’uso. In totale, 126 aeroplani lanciarono 8 bombe da500 Kg., 236 da250 kge 270 da100 kg. Alcuni degli apparecchi, non essendo riusciti a localizzare il bersaglio, rientrarono alla base con il loro carico. Di tutti gli apparecchi utilizzati, 24 subirono danni leggeri ed uno, come abbiamo appena detto, fu abbattuto. Questo, invece, il commento finale del Mattesini: «In conclusione, Punta Stilo fece comprendere ai supremi responsabili della marina che le nostre navi non erano ancora pronte ad affrontare quelle nemiche una battaglia di grosse dimensioni e dagli esiti, se non decisivi, strategicamente condizionanti. Ciò rese più cauto Supermarina, appoggiato dal Comando Supremo, nel pianificare le operazioni offensive, anche quelle che apparivano di natura favorevole, come giustamente ha sottolineato l’ammiraglio Iachino. Per diminuire il divari tecnico-tattico nei confronti del nemico, nella tarda estate del 1940 fu data attuazione ad un intono programma di esercitazioni e di manovre e di tiro, necessarie per aumentare l’addestramento bellico della flotta in vista dei futuri cimenti».La Battaglia di Punta Stilo, in ogni caso, fu l’unico scontro combattuto tra corazzate italiane e inglesi.
Una storia nella storia fu la vicenda umana dell’ammiraglio Inigo Campioni, gentiluomo di vecchio stile. L’ha raccontata Gianni Rocca nel suo libro, così da noi riassunta. Nel corso della guerra Campioni fu mandato a governare l’Egeo dove lo colse l’armistizio dell’8 settembre 1943. Benito Mussolini, che aveva un conto in sospeso conl a Marina ritenendola in qualche modo “traditrice”, a seguito di quella generale confusione che vide cambiare, d’un colpo, gli alleati, fece portare Campioni davanti al Tribunale speciale (riattivato con la Repubblica di Salò) di Parma che lo condannò a morte per fucilazione insieme ad altri tre ammiragli. Campioni forse pagò anche il conto di Punta Stilo