A seguito della brutale uccisione di Masha Amini, ragazza curda arrestata e uccisa dalle autorità iraniane per non aver indossato correttamente l’hijab, si è scatenata una protesta di migliaia di donne iraniane.
La questione del velo islamico è una delle più dibattute in Occidente in quanto costituisce una paradigmatica differenza fra due culture: islamica e occidentale.
Per evitare generalizzazioni diremo che ciò che noi chiamiamo comunemente “velo” in realtà si presenta in diverse modalità. In sintesi, i veli sono molteplici e la copertura del corpo femminile è graduata e non uniforme in tutti i Paesi del medio-oriente.
Dall’hijab che copre capelli e collo lasciando scoperto il viso al khimar mantello che copre dalla testa in giù fino alle caviglie; il jilbab, lungo abito che copre interamente il corpo; il niqab che copre il volto lasciando scoperti gli occhi; uno dei veli più diffusi è lo chador, generalmente di colore nero e infine il burqa che si presenta con una griglia all’altezza degli occhi e che copre il corpo nella sua interezza.
La seguente riflessione nasce a seguito della brutale uccisione di Masha Amini, ragazza curda arrestata e uccisa dalle autorità iraniane per non aver indossato correttamente l’hijab. La vicenda ha innescato la protesta di migliaia di donne iraniane, scese in piazza per manifestare contro il regime. Regime che è nelle mani di Bbraimi Raisi e della suprema guida di Alì Khamenei. Il governo iraniano ha tentato di giustificarsi spiegando che l’arresto di Masha Amini è stato fatto dalla “polizia morale”, perchè Masha aveva indossato abiti “inappropriati”. Dopo l’arresto, la ragazza, rimasta in coma per tre giorni a causa delle percosse ricevute, sarebbe morta, secondo la versione ufficiale, di infarto cagionato da uno “sfortunato incidente”. La “polizia morale” iraniana è un corpo delle forze dell’ordine istituito nel 2005 con il compito di arrestare le persone a presidio del rispetto del “Codice di abbigliamento”, introdotto dopo la rivoluzione islamica del 1979 che trasformò la monarchia del Paese in una Repubblica islamica sciita, che si diede come testo costituzionale la legge coranica. Il 7 marzo 1979, l’ayatollah Khomeini decretava l’obbligatorietà dell’hijab cui seguiva nel giorno successivo una memorabile marcia di protesta. Nel 1983, il parlamento iraniano decise e impose la punibilità con 74 frustate e con una pena privativa della libertà personale per un massimo di 60 giorni. Generalmente le persone arrestate dalla “polizia morale” vengono portate in strutture di correzione per essere detenute e sanzionate per il mancato rispetto del codice di abbigliamento.
Per quanto riguarda la situazione politica odierna, Khamenei è guida suprema dell’Iran e esponente del clero sciita. Noto per la sua politica antioccidentale arrivò ad affermare che “i diritti umani sono l’arma nelle mani dei nostri nemici in lotta con l’Islam” e denunciando il governo statunitense di non essere autorizzato a giudicare il rispetto dei diritti umani in Iran. Khamenei è un sostenitore dell’uso dell’hijab, come strumento per onorare le donne a differenza di quanto avverrebbe in Occidente laddove è alto il tasso di violenza sessuale e l’attrazione del corpo femminile è utilizzata per scopi commerciali.
Tornando alla cronaca, la storia di Masha ha generato una rivolta che ha determinato le forze di sicurezza iraniane ad aprire il fuoco contro le dimostranti. Tuttavia, accanto agli scontri di piazza, ha fatto seguito una reazione pacifica con la quale centinaia di donne, con un gesto simbolico e rivoluzionario al tempo stesso, hanno dato fuoco agli hijab e tagliato i propri capelli al fine di scuotere l’opinione pubblica, sui soprusi con i quali queste donne convivono. Anche molti uomini e studenti stanno reagendo tagliando barba e capelli. Si tratta di una rivolta di massa inedita per il regime iraniano che si trova ad affrontare le sue fragilità e i suoi punti deboli.
C’è un’altra donna vittima della repressione delle proteste. È Hadis Najafi, ventenne uccisa, durante le manifestazioni, diventata simbolo della dissidenza anti-velo per essere stata filmata dai media mentre si ravviava i capelli con un elastico, incurante di non indossare l’hijab. Un gesto semplice che in Iran le è costato la vita.
Intanto, il principale partito riformista iraniano sta esortando le istituzioni a revocare l’obbligo del velo così da avviare un processo di cancellazione dell’hijab obbligatorio per mettere fine all’attività della polizia morale e per autorizzare manifestazioni pacifiche.
Ma torniamo al velo. All’hijab, in questo caso. Il termine “hijab” letteralmente indica: rendere invisibile, celare allo sguardo che è proprio l’effetto che sortisce se lo si indossa. Dal punto di vista storico, il velo era già usato in Mesopotamia nel XII secolo a.C. ed era obbligatorio in pubblico per ogni donna sposata. Nel mondo greco, in particolare nell’Iliade, si accenna alla dea Era che avvolge intorno alla testa una “leggiadra benda”, un velo sottile che copriva le spalle e il viso. Durante il Medioevo tra il XIII e il XIV secolo si sa di alcune donne che avrebbero avuto la possibilità di tenere lezioni di diritto all’università di Bologna a condizione di velare il volto e il corpo per non distrarre gli studenti.
Nell’Arabia preislamica la situazione femminile era molto contraddittoria e non esisteva una normativa vera e propria. Nell’approssimarsi della diffusione dell’Islam i precedenti privilegi di cui godevano le donne cedono il passo ad una rivalsa maschile.
A questo punto, secondo alcuni, con l’Islam, il velo diviene simbolo della dignità femminile per una donna che comincia ad essere soggetto di precisi diritti; secondo altri, l’obbligo del velo è teso a manifestare la subordinazione della donna, quale proprietà dell’uomo, costretta a nascondere il proprio viso agli altri uomini. Anche nel Cristianesimo e nel mondo bizantino, l’uso del velo era frequente e aveva la finalità di individuare le donne che dovevano godere di maggior rispetto.
Ad oggi, in taluni casi l’hijab è usato proprio per rimarcare il rifiuto dell’occidentalizzazione. Prima della rivoluzione islamica nel 1936, quando il Paese era governato dallo scià Pahlavi, al potere dopo la Prima guerra mondiale, venne imposta una modernizzazione e un’occidentalizzazione e con un decreto lo stesso scià vietava alle donne islamiche di indossare il velo in pubblico. La imposizione del divieto comportava per coloro che non si fossero adeguate al provvedimento e che quindi non avessero indossato il velo sottoposizione a percosse. Notevoli furono le proteste dei più conservatori. Nel 1941, quando lo scià decise di abdicare in favore del figlio, alle donne fu concesso di vestirsi come desideravano avallando una libertà di scelta tipica del mondo occidentale. Paradossalmente indossare il velo divenne simbolo di opposizione al regime.
La più tangibile percezione dell’opposizione tra mondo occidentale e mondo orientale è legata alla questione palestinese; e, se di terrorismo, si parlava con riferimento a Gerusalemme e ai numerosi attentati su questo territorio conteso tra israeliani e palestinesi nonché la guerra del Golfo condotta da Bush padre, solo dopo l’attentato alle torri gemelle nel world trade center di New York è emersa la profonda e ancora silente contrapposizione fra i due mondi. Storicamente la questione del velo è sempre stata ancorata ad una profonda differenza culturale tra Oriente e Occidente. In Oriente il velo costituisce parte integrante di un modello che ha le sue radici in una visione della realtà di carattere socio-politico, da un lato, e religioso, dall’altro. Due caratteri che coesistono senza soluzione di continuità. Nel mondo Occidentale e, se vogliamo, nel mondo della religione cattolica il velo è simbolo di castità, di rinuncia ai piaceri mondani, di negazione della vanità ma il significato del velo non va al di là della religiosità e si astiene dall’includere nell’uso del velo la componente laica della società.
Nel “nostro mondo” la laicità e l’affermazione delle libertà con in primis la inviolabilità della persona sono nate in anticipo rispetto a quanto avveniva nel resto del mondo. Ora la contrapposizione fra i due mondi è palese. La soluzione potrebbe essere un tavolo di trattative, una tavola rotonda in cui tutti i membri della comunità internazionale, posti tutti sullo stesso piano, trovino un accordo col quale, pur nel rispetto delle rispettive religioni, si ravvisi un substrato comune che riconosca la libertà nella diversità, da un lato e il pregio di una cultura multietnica, dall’altro in una concezione democratica in cui il velo è democratico quando indossarlo è una libera scelta della donna.
Beatrice Macrì