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In ricordo della dolce “Vivà”

Antonio Tedesco, direttore scientifico della “Fondazione Nenni, cultore della materia in Storia delle dottrine politiche all’Università di Foggia, ha scritto il saggio, “Vittoria Nenni, numero 31635 di Auschwitz”, edito da Arcadia Edizioni, che racconta la tragica storia della figlia più piccola dell’ex ministro Pietro Nenni, Vittoria, morta tragicamente nel campo di concentramento di Auschwitz.

 Bruno Gemelli

«Dite a mio padre che non ho perso coraggio mai e che non rimpiango nulla». Queste parole si leggono su una teca che ad Auschwitz ricorda le vittime dello sterminio. Sono le ultime parole lasciate da Vittoria Nenni. La più piccola delle figlie di Pietro Nenni. Le altre erano Giuliana, Eva (Vany) e Luciana. Vittoria era chiamata amorevolmente dal padre e dalla mamma Carmen, Vivà.  È morta nel campo di concentramento di Auschwitz il 15 luglio 1943.

Ora Antonio Tedesco, direttore scientifico della “Fondazione Nenni, cultore della materia in Storia delle dottrine politiche all’Università di Foggia, ha scritto il saggio, “Vittoria Nenni, numero 31635 di Auschwitz” (Arcadia Edizioni, pag. 228), con la prefazione di Benedetto Attili che ha scritto: «L’autore ha consultato una grande quantità di fonti documentali, attingendo alle carte private di Pietro Nenni e agli archivi pubblici italiani e francesi. Il libro di Tedesco ci apre, dunque, ad una conoscenza approfondita ed in parte inedita della famiglia Nenni. Entra quasi nella loro intimità: una famiglia forte, unita che ha condiviso, come disse Pietro Nenni, “con nobile orgoglio, i rischi della vita di un militante”. Una famiglia, perseguitata dal fascismo, che deve lasciare l’Italia per scegliere la dolorosa strada dell’esilio in Francia – dove i primi tempi sono durissimi – e che ha pagato un prezzo altissimo la propria avversione al fascismo, con la morte nel 1943 della terzogenita Vittoria.

Forse si parla poco di Vivà, forse per rispettare il grande ed intimo dolore del padre. Tuttavia, oggi appare necessario riscoprire la sua storia, per rendersi conto su quali valori e su quali basi morali, dalla Resistenza partì e si rafforzò l’idea di una Europa libera e dei popoli».

Vivà, giovanissima, sposò il cittadino francese Henry Daubeuf.

L’ Anpi ha stilato una scheda: “Col marito, dopo l’invasione tedesca della Francia, Vittoria entrò nella Resistenza. Nel 1942, la giovane donna fu arrestata dalla Gestapo con l’accusa di aver stampato e diffuso manifestini antinazisti e di avere, con Daubeuf, svolto, soprattutto negli ambienti universitari, ‘propaganda gollista antifrancese’. Vittoria fu deportata nel campo di Romainville. Il marito, con altri patrioti francesi, fu trucidato l’11 agosto 1942 nelle vicinanze di Parigi. A Mont Valerien una lapide ricorda l’eccidio. La figlia di Nenni fu deportata nel campo di sterminio nazista il 23 gennaio 1943. Avrebbe potuto salvarsi rivendicando la sua nazionalità italiana, che era stata notata da un ufficiale di polizia, ma rifiutò. Dichiarò di sentirsi francese e di voler seguire la sorte delle compagne di prigionia. Ad Auschwitz, Vittoria Nenni (pur non essendo comunista e neppure iscritta al Partito socialista), si unì al gruppo dei comunisti francesi. Con loro condivise la durezza della deportazione e, ammalatasi gravemente (le autorità militari sovietiche, trovarono negli archivi del lager una scheda di Vittoria Daubeuf; i medici del campo avevano scritto che la deportata n° 31635 era deceduta per ‘influenza’), non sopravvisse”.

L’infanzia di Vivà fu subito segnata dal clima di odio e dalla barbarie fascista: “Faremo fare a tuo padre la stessa fine di Matteotti!”. Con questa espressione nel 1926, un gruppetto di fascisti terrorizzarono una bambina di appena 11 anni che si apprestava ad andare a scuola. I fascisti devastarono l’appartamento della famiglia Nenni. Questo avvenimento convinse Pietro Nenni ad intraprendere la via dell’esilio. La famiglia Nenni si rifugiò in Francia. Poco prima dello scoppio della guerra a Parigi Vivà, come detto, sposò Henri Daubeuf che fu fucilato a Mont Valerièn l’11 agosto. Il 30 gennaio del 1943 Nenni ricevette una cartolina di Vivà. Poche righe tracciate in fretta e assai probabilmente gettate da un finestrino del treno. Poche parole di saluto e un grido di fiducia.

Nei suoi diari Nenni scrive: «29 maggio 1945 – Una giornata angosciosa. Tornato in ufficio …. informato che c’è una lettera di Saragat a De Gasperi che conferma la notizia della morte di Vittoria. Ho cercato di dominare il mio schianto e di mettermi in contatto con De Gasperi che però era al Consiglio dei ministri. La conferma mi è venuta nel pomeriggio, da De Gasperi in persona, che mi ha consegnato la lettera di Saragat. La lettera non lascia dubbi. La mia Vivà sarebbe morta un anno fa nel giugno. Mi ero proposto di non dire niente a casa, ma è bastato che Carmen guardasse in volto per capire…

Poveri noi! Tutto mi pare ora senza senso e senza scopo.

I giornali sono unanimi nel rendere omaggio alla mia figliola. Da ogni parte affluiscono lettere e telegrammi. La parola che mi va più diretta al cuore è quella di Benedetto Croce: “Mi consenta di unirmi anch’io a Lei in questo momento altamente doloroso che Ella sorpasserà ma come solamente si sorpassano le tragedie della nostra vita: col chiuderle nel cuore e accettarle perpetue compagne, parti inseparabili della nostra anima”.

Povera la mia Vittoria! Possa tu, che fosti tanto buona e tanto infelice, essere la mia guida nel bene che vorrei poter fare in nome tuo e in tuo onore».

 

 

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