di Mario Alberti
In genere mi siedo in riva ai giornali e pesco la notizia. Da lì prendo spunto. A volte, raramente, scrivo anche di politica. Ammetto, ne capisco poco, e quel poco è troppo “a modo mio”. Perlopiù pesco in notizie di cronaca. Ma accade, a volte, di scivolare in acqua e lasciare, involontariamente, la rassicurante riva. Accade, a volte, di trovarsi dentro la cronaca. Andiamo ai fatti. Direzione Catanzaro. Ci vado una volta a settimana circa in un posto buono. Prometto che vi parlerò anche di questo, ma un’altra volta. Mi fermo come consuetudine alla stazione di servizio di Vibo Pizzo.
È mattino, sono circa le otto e trenta. E fa freddo, in questo maggio travestito da novembre.
Mi piacciono le stazioni di servizio. Meno di quelle ferroviarie, ma anche. Sono luoghi transitori, e ci leggo le storie dei viaggiatori. Qualche volte ne rubo qualcuna. Sono pochi i viaggiatori che sostano alla stazione di Vibo Pizzo. Ammiro in uno di loro, un omone barbuto con accento campano, la capacità di mangiare di primo mattino un panino con cotoletta. Ma scaccio questo pensiero classista che vuole le persone corpulente incontrate per strada camionisti e per giunta affamati. Magari lo è, magari no. Comunque sia mi rimane impresso. Anche per quello che ancora non so di dover vedere. Sbircio poco. Risalgo quasi subito in auto.
Guido una Giulietta bianca quando si sa, i vecchi col cappello dovrebbero guidare una Panda prima serie con le barre porta tutto sul tetto. Eccezione che conferma un altro pregiudizio visivo.
Parto neanche troppo spedito e dietro la curva, appena uscito dalla stazione di servizio, in agguato l’apocalisse. Ecco, io penso che l’essere umano sia più o meno come un treno. Viaggia su binari, e le rotaie si chiamano abitudine, o normalità, qualora questa esista. Vediamo le cose, i paesaggi, la fila ordinata delle auto in autostrada come fossero visuali standard. Poi accadono le cose.
Subito dopo l’uscita dalla Stazione di Servizio, metà apocalisse davanti. L’altra metà dietro. In mezzo alla carreggiata un uomo agita le braccia, correndo incontro alle auto. E la prima auto è una Giulietta bianca. Io. Dietro l’uomo, un grande camion, auto accartocciate l’una contro l’altra, una contro un guard rail, un’altra contro il muro, una di traverso in mezzo alla strada. Altri camion di traverso. Freno e la Giulietta tiene nonostante il terreno scivolosissimo. Freno appena appena a ridosso del mezzo più grosso. Mi sposto leggermente, un’altra auto piomba incontrollata e di traverso cozzando contro il tir dietro di me.
Prosegue la carambola. Due, tre, quattro auto una contro l’altra. Si apre alla vista uno scenario di guerra. Gente vagare confusa tra le auto accartocciate. Qualche ragazza piange, un paio di persone appoggiate alle auto, uno tenersi il volto sanguinante. L’impressione immediata è di trovarsi in Ucraina o a Gaza, dopo un’esplosione. Penso al mangiatore di cotolette mattutine, lo cerco ma non lo vedo. Forse si sarà fermato ancora dietro. Spero non sia andato a sbattere. Chiamo subito la Polizia. L’avevano chiamata in tanti, mi dice l’operatore, chiedendomi delle ulteriori informazioni. Il 118. Che non arrivano immediatamente. Devono trovare dei varchi per poter passare. Subito vengo attratto da un furgone con una fiancata totalmente distrutta, dal quale scendono un paio di ragazzi in tuta da lavoro blu. Si vede che sono dei tecnici di qualche ditta di non so che cosa. Ma in un attimo, nonostante la botta presa, anche notevole, si trasformano in distributori di materiale di primo soccorso. Aprono un paio di cassettine con sacchetti di ghiaccio liquido e li portano qui e là. Leniscono il dolore della ragazza con il ginocchio contuso. Del ragazzo con il volto insanguinato. Persone che curano persone. Ogni dannato in quell’inferno di lamiere si prende cura di un altro simile, messo peggio. Nessuno rimane da solo.
Per tutti c’è un simile a portare conforto, ghiaccio o un braccio dove sostenersi.
Parlo un po’ con alcuni, e soprattutto osservo. Arrivano i soccorsi ufficiali che vengono indirizzati verso le persone apparentemente più gravi. Apparentemente, perché si sa che negli incidenti stradali a volte le lesioni covano dentro, e possono essere mortali. Faccio anch’io un paio di triage abusivi. Ma in fondo non è vero. Gli unici abusivi sulla faccia della terra sono quelli che non si prendono cura dell’altro. Ed a volte queste situazioni servono come catalizzatore di solidarietà.
I poliziotti, giovani ed aitanti, saltano qui e là per capire se vi siano vittime. Leggo, in serata, che si sono registrati dieci feriti e nessuno per fortuna grave. Uno di loro si avvicina alla mia macchina e nota che è intatta. Alza il pollice in su e sorride. Io no. Non sorrido. Non riesco a godere di questa inspiegabile immunità. Mi sento l’unico sopravvissuto ad una catastrofe, sentendomi in colpa per tutto ciò. È una sensazione strana. Confonde. Dopo un paio di ore si smonta tutto. Il carro attrezzi toglie le macchine incidentate e fa spazio alle pochissime che si sono salvate. Al centro della strada piena di detriti c’è la mia. Un brusco operaio dell’ANAS mi chiede se ho intenzione di rimanere a lungo fermo. Mi dice di spostarmi che devono lavorare.
Vorrei rispondere di si, che intendo ancora fermarmi dove c’è umanità, solidarietà, reciproco sostegno. Ma è facile capire che non è il momento di filosofeggiare. Risalgo e seguo la volante della Polizia che a sirene laceranti ci fa strada. Riprendo, un po’ diverso da prima, il viaggio.