È stato presentato nei giorni scorsi a Bovalino, presso il Caffè Letterario Mario La Cava, il libro di Pietro Melia (già direttore de La Riviera) “Il sequestro Matarazzi” edito da Città del Sole edizioni. Pubblichiamo la prefazione di Ezio Arcadi, già Sostituto Procuratore a Locri.
Non è davvero facile accostarsi a una vicenda -direi meglio un dramma- quale quella che ha visto vittima Tobia Materazzi e la sua famiglia se di quella storia (a differenza, purtroppo, di tante altre similari) non si è stati in alcun modo protagonisti, diretti o indiretti che dir si voglia. Non è solo questo. Purtroppo, molti dei protagonisti di quella vicenda sono scomparsi o sono già da lungo tempo lontani dal servizio, di tal che del fatto se ne parla generalmente per notizie ricevute attraverso la “tradizione orale” o apprese attraverso la lettura di atti giudiziari o di polizia relativi all’argomento.
Sotto tale profilo, Pietro Melia costituisce una autentica eccezione, in quanto era già a quell’epoca “cronista di strada” -figura ormai completamente sparita- ed è ancor oggi sulla breccia, in grado di impugnare la penna e raccontare.
Tempi davvero tristi, quelli, in cui si seppellivano i rituali e i “rispetti” della vecchia mafia rurale e si inaugurava la grigia stagione della prima guerra di ‘Ndrangheta (bilancio 200 omicidi, innumerevoli gli omicidi tentati e gli attentati dinamitardi), che aveva avuto il suo avvio in Reggio Calabria a fine 1974 con l’omicidio del Roof Garden (vittima Giovanni De Stefano) e si sarebbe conclusa dopo circa due anni, consegnando al Creatore le anime di due grossi bolidi della vecchia generazione (don Antonio Macrì e don Mico Tripodo), notoriamente contrari alla pratica del sequestro di persona a fini estorsivi, a ragione del clamore che tali fatti accompagnava; la pressione asfissiante sul territorio che le Forze dell’Ordine non potevano non esercitare nella prospettiva di cercare gli ostaggi e catturare i responsabili; il disdoro che ricadeva sulla credibilità dei “capi bastone”, che apparivano all’occhio del pubblico come incapaci di assicurare l’ordine nelle aree di rispettiva influenza.
Vinse, come a ognuno è noto, la “nuova Mafia”.
E i sequestri decollarono alla grande.
Al punto che “La Repubblica”, in un articolo della metà di giugno 1989, poteva titolare “IN DICIASSETTE ANNI 600 SEQUESTRI”, sia pure limitando l’esame al solo arco di tempo compreso tra il 1972 e la prima metà dell’anno 1989.
Il sequestro del giovane Matarazzi, secondo la nostra opinione, andava a collocarsi in un momento specifico del fenomeno considerato nel suo complesso: vale a dire in un’epoca in cui i sequestri erano -il più delle volte- finalizzati all’acquisizione di attività economiche di punta (farmacie, imprese edilizie, imprese commerciali avviate, cospicue proprietà agrarie, tanto per dirne qualcuna), prima ancora che all’incasso del prezzo del riscatto.
L’opzione sequestro=riscatto e quindi sequestro=danaro tout court si affermerò di lì a breve, e a farne le spese saranno precipuamente gli operatori settentrionali, in particolare lombardi
(ben 158), come ufficialmente certificato dalla relazione della Commissione Antimafia sul tema approvata nella seduta del 7.10.1998.
Su questo scenario lo Stato, doverosamente chiamato a tutelare la vita l’incolumità e i beni dei suoi cittadini, si poneva in maniera incerta e si dimostrava all’evidenza sprovvisto di strategie efficaci: ciascun sequestro veniva trattato a se’ in maniera solitaria; le indagini, affidate ai singoli corpi di polizia (in genere quello intervenuto per primo al verificarsi del prelevamento dell’ostaggio), ristagnavano e si nutrivano dei sovrumani sacrifici personali di alcuni; i corpi di polizia comunicavano scarsamente tra loro; le polizie presenti nelle aree maggiormente critiche – in Calabria la provincia di Reggio e la fascia jonica in particolare – erano assolutamente inadeguate dal punto di vista numerico e costrette a indagare sul sequestro del giorno nello stesso tempo in cui indagavano su altri gravi fatti di criminalità (gli omicidi riferibili alla cosiddetta guerra di mafia, per esempio), salva sempre l’ordinaria amministrazione; escluso l’impiego delle forze speciali militari; la tecnologia applicata alle indagini tutta da venire, riducendosi all’impiego di apparati radio che smettevano di gracchiare non appena imboccata la prima gola di montagna e a qualche intercettazione telefonica –controllare dieci telefoni in contemporanea era impresa quasi impossibile -; le Procure erano assolutamente sguarnite dal punto di vista numerico e molto difficilmente si collegavano tra loro; mancava ovunque anche l’ombra di una specializzazione, sicchè l’indagine si esauriva nella ricerca spasmodica della notizia (o della confidenza) utile ad individuare il sito di custodia dell’ostaggio, nel “battere” a piedi per mesi le colline e le montagne aspromontane e nei classici “posti di blocco” agli incroci delle statali e delle provinciali.
Per farla breve: i sequestri, per gli apparati che contavano, erano episodi frammentari di criminalità e non rivestivano la dignità di problema nazionale.
Lo divennero a distanza di molto tempo, quando a sud si moltiplicarono in maniera scandalosa e al Nord del Paese la misura cominciò ad essere colma anche per causa del prelevamento di bambini (Marco Fiora, per esempio) o anziani (Pietro Castagno, per esempio) e, soprattutto, delle vicende Celadon e Casella, la cui madre compì uno storico viaggio per adoperarsi per la liberazione del figlio in alcuni paesi della Locride come Platì, Ciminà e San Luca, incontrando le donne (mamme) del luogo, i parroci, incatenandosi in piazza, e curando raccolte di firme.
Le immagini delle proteste della signora Casella fecero il giro del mondo e costrinsero lo Stato centrale come si dice “a prendere provvedimenti”.
Nacquero così i primi nuclei antisequestro; si cominciò a realizzare una seria occupazione militare intelligente dei territori aspromontani – poi portata a compimento con i carabinieri dello squadrone “Cacciatori Calabria” -; si estese l’uso delle tecnologie – gps, microspie, controlli telefonici e ambientali e quant’altro-; si incrementò sensibilmente il numero di operatori dei corpi di polizia e i loro mezzi; si cercò di adeguare il numero dei magistrati assegnati alle Procure e alla trattazione degli affari penali in genere; si rividero le norme circa la competenza delle Procure a condurre le indagini; si favorì la collaborazione tra uffici giudiziari diversi; si trasferì il baricentro dell’attività di indagine dal singolo fatto di sequestro alle organizzazioni in grado di effettuare e gestire i sequestri; si iniziò a fare applicazione della legge Rognoni-Latorre; fu varata la discussa legge sul blocco dei beni; si pose mano a norme premiali per i dissociati, etc.
Inutile dire che molto di questo strumentario normativo organizzativo e investigativo proveniva dalle esperienze maturate dalle Forze dell’Ordine e dalla Magistratura negli anni a cavallo tra il 1970 e 1980 nell’ambito della lotta al terrorismo politico; tanto vero ciò, che molte professionalità della polizia giudiziaria e della magistratura inquirente transitarono proficuamente da un settore di lavoro all’altro.
Gli è che gradualmente il fenomeno del sequestro di persona a scopo di estorsione si ridusse, sino praticamente a scomparire.
Tutto effetto dell’attività di prevenzione e repressione? Anche. Tale attività servì, come si dice in medicina, piuttosto da coadiuvante: convinse la Criminalità che l’accumulazione del capitale ormai era cosa fatta e che i rischi erano cresciuti; bisognava quindi impegnarsi su altri versanti, meno rischiosi per un verso e più remunerativi per altro.
Un aspetto ci terremmo in questa sede a sottolineare, visto che sfugge ai più quando ci si trova a discorrere dell’argomento: i sequestri di persona, in Italia e specialmente in Calabria, hanno procurato al tessuto sociale ed economico danni incalcolabili, che ovviamente hanno pesantemente condizionato il futuro delle regioni ove maggiormente il fenomeno ha allignato – e la Calabria ne è senz’altro il maggiore esempio -: stuoli di “borghesi” vittime o che tali temevano di diventare da un momento all’altro – con relative famiglie – si sono allontanati impauriti dal sud alla volta di regioni più “tranquille” ove potere vivere e possibilmente progredire.
Col corollario che nell’arco di una quindicina di anni (diciamo gli anni compresi tra il 1975 e il 1990) è finita inghiottita altrove una fascia cospicua di borghesia che annoverava medici, farmacisti, avvocati, commercianti (e i Matarazzi erano sicuramente tra questi), industriali, grossi agricoltori; tutte persone per lo più di successo nei settori di rispettiva attività, che costituivano la classe dirigente forgiata dal dopoguerra e che avrebbero dovuto essere i punti di riferimento del domani.
Con essi andavano a piantare radici altrove, ovviamente, anche i rispettivi figli, che ragionevolmente sarebbero divenuti la classe dirigente del futuro, nonché i loro grandi o piccoli capitali, di cui il territorio avrebbe potuto e dovuto naturalmente beneficiare.
Tanto per fornire un’idea, diremo che una ricerca condotta negli anni 2003/04 presso la l’Università di Salerno ha accertato che la redditività media del sequestro/riscatto, per il periodo ‘69-’90, è stata di lire 484.849.680; per il periodo ‘90-‘97 la redditività media è stata di lire 381.650.000.
In cambio di un tale drenaggio di energie e di ricchezza, alle regioni meridionali veniva consegnata una criminalità più forte di prima e soprattutto più ricca di prima, a cagione delle attività economiche che gradualmente acquisiva; ai riscatti incassati; ai giganteschi guadagni provenienti dal riciclaggio di quelle somme nelle più svariate attività delinquenziali (non solo gli stupefacenti, ma anche i casinò, l’usura, i preziosi e chi più ne ha più ne metta).
Una criminalità più arrogante, di conseguenza, che più facilmente poteva mimetizzarsi con le ramificazioni sane della società e che meglio di prima poteva interfacciarsi col mondo della politica, da cui peraltro veniva nei fatti da un pezzo corteggiata.
Una domanda ci si affaccia tuttavia di frequente nella mente: possibile che lo Stato centrale, PER TRENT’ANNI (si, perché i sequestri di persona a scopo estorsivo si sono protratti per trent’anni!) sia stato così disattento da non riuscire a cogliere il prezzo che la Comunità avrebbe dovuto pagare nell’immediato e negli anni a seguire? Possibile che si sia dovuto attendere il viaggio in Calabria di Mamma Casella per cominciare a fare qualcosa sul serio? Fu davvero disattenzione, sottovalutazione? O fu altro? A tale interrogativo non siamo sinora riusciti a dare una risposta.
Restiamo in attesa di contributi.
Ezio Arcadi