Corrado Alvaro è morto l’11 giugno 1956. Uno dei più importanti intellettuali, giornalisti, scrittori, soggettisti e sceneggiatori, del 900. Non lo ricordiamo mai per come e per quanto meriti. Ci siamo immaginati, con molta fantasia, un suo ritorno a San Luca.
“Eravamo con Pirandello, la neve alta così, a uno dei trecento tavoli di Banhoff Zoo, una delle tante sale da ballo per i piccoli borghesi berlinesi. Pirandello portava i suoi gilè abbottonati fino al mento che finiscono col colletto e la cravatta color grigio”. “E chi sarebbe, questo Pirandello?” Alvaro alza gli occhi, cerca di capire a chi appartenga la voce che lo ha interrotto: è impossibile. Gli anziani, nell’Areopago, assumono tutti lo stesso tono, hanno una voce unica che esce ora da una, ora da un’altra bocca, collegata al medesimo pensiero. “Luigi Pirandello era il più grande drammaturgo del mondo, gli hanno dato il Nobel”, afferma, solenne, Alvaro, “ah”, fa una voce, e nonostante Alvaro abbia tenuto lo sguardo alto, nemmeno stavolta ha capito chi abbia parlato. “La sua figura colore d’argento, geometrica, staccava sulla tappezzeria rossa del luogo, e al tavolo basso pareva un oggetto d’arte, con la testa fine e la barba a punta. Sembrava una maschera antica di teatro”, riprende Alvaro, “mi figuravo che cosa potesse pensare. Sono i particolari e le creature che lo interessano; non accade quasi mai di sentirgli enunciare un sistema. Di Londra, si ricorda di una signora ubriaca e seminuda trascinata dai camerieri fuori dell’atrio di un albergo”. “Di cosa si occupa il drammaturgo?”, Alvaro viene interrotto ancora, “è una sottospecie di scrittore di Tragedie?”. “No, no, il Nobel lo danno solo ai grandi”. “E dove lo danno il Nobel, Corrado?”. “In Svezia”. “Ah, i vichinghi”. Niente, Alvaro sente le voci, ma non riesce a vedere labbra muoversi, ed è inutile insistere della sua amicizia con Pirandello, nessuno nell’Areopago se ne è impressionato, anzi, la battuta sui vichinghi potrebbe accendere una presa in giro che non servirebbe alla sua causa: ha chiesto udienza per illustrare le proprie benemerenze, per dimostrare che se lo merita il diritto di poter rientrare a San Luca. Alvaro fa altri nomi, di amici famosi, di gente che lo stima: parla dei propri libri, degli articoli che ha scritto, delle tante capitali europee che conosce bene; spiega che l’uomo è forte abbia precorso Orwell. Niente. Nell’Areopago i volti sono maschere atarassiche, gli anziani sgranano gli occhi perché il cielo li schiarisca ulteriormente: tutti hanno occhi azzurri, verdi, oro. È la magia della funzione, la saggezza si scambia i pensieri con l’alto e il cielo schiarisce menti e occhi. Ai piedi dell’Areopago, gli altri, tutti, hanno gli occhi neri. Corrado Alvaro ha occhi nerissimi, pensa, svelto, un altro argomento, deve trovarlo qualcosa che interessi, qualcosa che renda lui interessante a loro: che parli dello Strega che ha vinto può solo suscitare un’altra battuta, analoga a quella sul Nobel. “Dalla Banhoff Zoo me ne andavo presto, c’era troppa confusione. Attraversavo a piedi la notte, e Berlino; per la Porta di Brandeburgo raggiungevo l’isola dei musei. Mi fermavo davanti all’Altes e mandavo un saluto alla madre nostra che è custodita dentro”, Alvaro tace, alza lo sguardo, nessuna reazione, ma pure nessuna battuta, “c’è la nostra Persefone dentro, sta seduta su un trono di pietra che la Madonna della Montagna che protegge Polsi somiglia tutta a lei. È nostra, quella Dea è nostra: ha i piedi, il petto, la faccia delle nostre donne. È nostra e a noi dovrebbero restituirla. Dicono che proviene da Taranto, ma è una bugia. L’hanno rubata a Locri Epizephiri, perfino Picasso lo sostiene che è di Locri, dice, addirittura di averla, appunto, visitata a Locri prima che la rubassero e di essersene ispirato per le sue donne che corrono sulla spiaggia”. “E chi è Picasso?” La voce ancora, un’altra coltellata. È definitiva, pensa Alvaro, e già si prepara ad andar via, ad essere scacciato un’altra volta, a rinunciare al ritorno, più sventurato di Odisseo, non glielo perdoneranno mai di aver parlato dei vizi dei sudici. “La Mangano, dicci di Silvana Mangano, Corrado, tu ci hai sceneggiato un film per lei, Riso Amaro, quanto sono lunghe le sue gambe? Perché è triste?”. “La Mangano?”, Alvaro alza la testa, sorride. “Ho scritto per filo e per segno come avrebbe dovuto sollevare le calze: lentamente, perché si contasse millimetro sopra millimetro quella lunghezza divina. Di fronte a lei bisognava trattenersi, le ginocchia si piegavano da sole per rendere omaggio alla sua natura sovrannaturale. È triste come ogni Dea precipitata fra gli umani, privata di un amore alla propria altezza, che solo un altro Dio con forma d’uomo potrebbe colmare. Non lo ha il Dio che vorrebbe”. Alvaro parla e nessuna voce lo interrompe, racconta, inventa. Silvana è la sua medaglia buona, l’avvocato giusto e Alvaro ne fa buon uso. L’Areopago è pago, scambia i pensieri col cielo e il cielo schiarisce un pizzo degli occhi di Alvaro, un riflesso, che anche uno solo basta. La voce si alza ancora, viene da una bocca che si muove, che Corrado vede, da sotto due occhi chiari che guardano lo scrittore, “vieni a sederti Corrado, qui fra noi. E della vita, della vita cosa diceva Pirandello”. Alvaro si siede, sente la sua voce uscirgli di bocca senza che labbra e lingua si siano mossi, “la vita e la morte sono i due cardini del pensiero degli uomini, hanno un valore transitorio. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi».