Franco Blefari è conosciuto come poeta dialettale, ma questa volta fa qualcosa di più e di diverso: ci presenta la gente di quel paese di gesso che gli è tanto caro, cioè del suo paese, Benestare. “Gente di quel paese di gesso” è un libro di storia nel quale ricostruisce, con amore e pazienza la vita del suo paese immerso totalmente nella civiltà contadina.
Franco Blefari è conosciuto come poeta dialettale, ed in tale veste ha pubblicato tanti libri che hanno riscosso unanimi apprezzamenti da parte del mondo della cultura e principalmente da quello popolare, specialmente negli anni in cui il compianto professore Pasquino Crupi ha avuto l’iniziativa di portare, nelle piazza della Calabria, la poesia dialettale con la presenza dei poeti. Durante le stellate serate del mese di agosto, in tante piazze dei nostri paesi era possibile incontrare l’illustre letterato in compagnia dell’allegra comitiva dei più noti poeti dialettali calabresi. La nottata finiva sempre all’alba, con uno spuntino bagnato da un buon bicchiere di vino calabro. Questa volta Blefari, non torna con una sua ulteriore opera poetica, fa qualcosa di più e di diverso: ci presenta la gente di quel paese di gesso che gli è tanto caro, cioè del suo paese, Benestare. È risaputo che Blefari è un poeta e come tale è noto nel mondo letterario, ma è anche uno straordinario verseggiatore; potremmo dire quasi che la natura gli ha dato in dote la facoltà di parlare in versi. “Gente di quel paese di gesso” è un libro di storia nel quale ricostruisce, con amore e pazienza la vita del suo paese Benestare, immerso totalmente nella civiltà contadina. È un modo nuovo di presentare la storia di una comunità o di un popolo che la moderna storiografia sta prendendo in considerazione per non trasformare la storia in categorie astratte. L’intento di Blefari è quello di farci capire come viveva la gente durante la civiltà contadina, l’unica passata dalle nostre parti, dopo quella Magno-greca. Ma che cosa intendiamo per civiltà contadina? Parliamo d’un mondo chiuso, in cui il necessario per la sopravvivenza è prodotto in campagna da contadini e braccianti che lavorano spesso la terra degli altri dall’alba al tramonto; gli utensili da lavoro sono prodotti dagli stessi lavoratori o da un artigianato locale povero. Il lavoro di Blefari si svolge entro queste coordinate, con particolare attenzione alla vita degli uomini in carne ed ossa e non a quelli ridotti a categorie astratte come spesso fa la storiografia ufficiale. Dopo una breve introduzione sul dialetto calabrese e sulla sua storia, Blefari ci presenta il suo paese di gesso caratterizzato per la presenza di forni per cuocere il minerale tenero, cioè il gesso, che allora veniva ampiamente usato in edilizia. A monte c’è il duro lavoro dei minatori, degli addetti ai forni e di coloro che, a colpi di mazza, trasformano la pietra cotta in polvere. Chi non lavora nei campi accetta il duro e pericoloso lavoro del gesso. Trattandosi d’un minerale povero, la sua estrazione è durata solo quanto la povertà che obbligava ad usare quel materiale fragile. Il libro entra, per così dire, nel cuore della civiltà contadina e ci presenta un mondo scomparso, che sopravvive solo nella memoria di coloro che quel mondo lo vissero. Oggi, che una moderna trebbiatrice in una giornata produce tonnellate di grano, chi sa come i nostri nonni e bisnonni raccoglievano e trasformavano le spighe in grano? Chi ricorda migliaia di donne curve per una intera giornata, anche sotto la pioggia, per raccogliere le olive con le mani, bacca dopo bacca? Ed il pane fatto in casa, quasi in tutte le famiglie, sul quale la mamma prima di metterlo nel forno, tracciava un segno di croce? Ed il rito del maiale, ucciso e lavorato in inverno in un clima di vera festa? Veniva lavorato in tutte le sue parti per sfamare la famiglia durante tutto l’anno. Solo i poveri veri non possedevano un maiale, perché lo allevavano per venderlo. La civiltà contadina, essendo legata al passato, di questo conserva la ritualità. Ancora ci sono le serenate sotto la casa della ragazza desiderata, come ai tempi dei menestrelli. Fidanzamento e matrimoni hanno una loro ritualità sociale, oltre che religiosa. Non mancano superstizioni e credenze popolari: il malocchio, “U fagliettu”, tanti tabù, alcuni dei quali sono rintracciabili persino nella cultura dei pitagorici. Un intero capitolo è dedicato al gioco e divertimento dei bambini: questi per giocare ed appagare il loro bisogni di moto ed azione devono inventarsi i giochi e i mezzi per farlo. Sanno costruire trottole, camion con tavolette, e poi continuano un gioco, molto diffuso in Magna Grecia, quello con gli astragali. I bambini non hanno giocattoli e se li costruiscono, li inventano. Belle le pagine sul Natale d’una volta, quando si viveva la poesia della Natività, la magia del Presepe; il Natale era attesa del Messia che viene sulla terra per vivere assieme alle nostre miserie. Non c’è più il Natale d’un tempo; il tempo nel suo perpetuo fluire ha cambiato tutto. È venuta meno la fede. Mia mamma pregava e baciava il Bambinello che aveva messo nel piccolo presepe costruito su un tavolino in casa. Il rito della Pasqua continuava le sacre rappresentazioni medioevali; la gente, il Venerdì Santo, durante la processione verso il Calvario si batte il petto e piange per la morte di Cristo. Un intero capitolo è dedicato agli oggetti usati nella civiltà contadina: fuso, conocchia, nimulegliu, manganegliu, aratro di legno, telaio: tutti costruiti artigianalmente. Una civiltà immersa completamente nel passato. La parte più originale del libro è quella che comprende una lunga galleria di personaggi, la parte più rappresentativa del paese di gesso, fatta rivivere attraverso agili e brevi profili. Quasi tutti i personaggi sono designati con il nome con cui erano noti nel paese, cioè il soprannome o ingiuria. Nel libro rivive un intero paese. L’Autore ama la civiltà contadina che fa parte della propria anima, ma sa pure che in quel mondo mancavano i servizi igienici, l’acqua nelle case e la pulizia della strade era affidata alle galline la mattina. Era un mondo con tanta sporcizia e Mario La Cava scrive che sporcizia è sinonimo di povertà. Gli uomini, spesso, convivevano con gli animali nei catoia. Ecco perché Alvaro ha scritto in anticipo che sulla morte di questa civiltà non c’è da piangere. Ho avuto modo di scrivere che la civiltà contadina può essere accostata a Giano Bifronte: su una faccia il senso di solidarietà e semplicità, sull’altra l’oppressione e la miseria. Belle, a mio modo di vedere, le pagine sull’aborto: qui Blefari si muove in sintonia con la migliore tradizione umanistico-cristiana sul rispetto per la vita.
Bruno Chinè