A seguito dello svolgimento del I° Corteo Storico dei 5 Martiri di Gerace si è sviluppato un vivace dibattito che, come sempre in questi casi, è interessante alimentare, perché consolida il ruolo e la portata innovativa della rivolta dei Nostri giovani liberali cresciuti sull’onda lunga della Repubblica Partenopea del 1799. Riporto qui di seguito quanto scritto e sottolineato dall’amico di “I Care!” Erminio de Biase, proprio sulla scia dell’evento organizzato dall’Associazione del Museo della Scuola “I Care!” il 2 ottobre scorso a Gerace.
Scrive Erminio de Biase:
Carissimo Presidente,
ora che si sono spenti i riflettori sulla festante rievocazione per la cui riuscita mi congratulo con te ed alla quale, pur se me l’ero ripromesso, non ho potuto partecipare, consentimi qualche riflessione.
Se – come, giustamente, tu affermi – è importante recuperare la memoria, a dispetto dell’amnesia professionale derivante da incuria e trascuratezza degli autori di storia, allora bisogna recuperarla a 360° e non solo per celebrare dei “martiri” fucilati per aver coltivato il sogno di Libertà e di una Italia unita.
In questa prospettiva, quindi, da calabresi, sarebbe, opportuno ricordare alle nuove generazioni anche la rapina fatta dal Peppe nazionale in camicia rossa che, risalendo la penisola dopo la sua “eroica” impresa del 1860, decise di chiudere le acciaierie di Mongiana, fiore all’occhiello della industria siderurgica duosiciliana; fiore che, grazie all’opera di quanti sacrificarono la vita per la libertà, l’unità e il progresso del popolo italiano, inesorabilmente si appassì… costringendo tanti tuoi (e miei) conterranei a lasciare la propria terra con una valigia di cartone piena di fame e disperazione…
Sarebbe anche opportuno, visto che ci tieni tanto a “gemellarti” con un museo di Torino, ricordare che in quella stessa città c’è anche il Museo Lombroso, in cui è possibile “ammirare” il teschio del “brigante” Villella, ritenuto dallo spudorato “padre” dell’antropologia criminale un essere inferiore alla stregua di un animale con forte predisposizione a delinquere e la cui restituzione al suo paese natale, Motta Santa Lucia, è stata più volte negata a dispetto della normativa vigente in materia di trattamento e conservazione dei resti umani e di tutela del sentimento di pietà verso i defunti, col pretesto (assurdo) che quel teschio è un bene culturale…
Ecco, anche ciò bisognerebbe divulgare a dispetto di quell’amnesia professionale degli storici di cui sopra della quale ti lamenti.
Un’ultima annotazione: i “fratelli” d’Italia a cui si rivolge l’autore del da te tanto elogiato “Canto degli Italiani”, non siamo noi, ma i suoi compagni di loggia…
E noi non lo siamo, vero?
Cordialmente
Erminio de Biase
Scrive Vito Pirruccio:
Carissimo Erminio,
come ti avevo promesso faccio seguito alla mia prima veloce risposta con una riflessione, spero, più puntuale e mirata rispetto agli aspetti da te sollevati. In questo caso diamo al nostro dibattito rilievo più ampio, grazie allo spazio concessoci dal mensile Riviera, testata particolarmente attenta alle problematiche meridionaliste. Oserei dire, giornale meridionalista per eccellenza, data la qualità delle penne che lo hanno creato, cresciuto e affermato alle quali, però, noi (sicuramente io) ci mettiamo umilmente in fila come incursori corsari occasionali.
La tua riflessione nei singoli richiami la condivido quasi in toto, ma avverto un vizio di origine (concedimi questa libertà espressiva!) comune, a mio parere, ai “meridionalisti di schieramento”. Studiosi certamente di valore, ma portatori del convincimento di essere stati usurpati dalla Storia e, come tali, quasi nostalgici se non proprio del passato, inclini, però, a farsi percepire sostenitori del vecchio adagio: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Anzi, c’è un filone di meridionalismo specificatamente economico accademico, sicuramente di qualità, che ha impostato un’originale costruzione storico-economica tesa a dimostrare tale assunto.
Io, carissimo Erminio, pur apprezzando e stimando questi studiosi del pensiero meridionalista, non sono stato mai convintamente attratto dalla/e loro conclusione/i.
Per quale motivo?
Siccome la Storia non si fa né con i “ma” né con i “però”, mi piace osservarla e studiarla nella sua naturale evoluzione e questo modo di percorrerla mi ha portato ad apprezzare e sostenere con convinzione (qualcuno con vedute diverse dalle mie potrebbe legittimamente considerarmi, pure, di “schieramento”) sia l’Unità dell’Italia e sia, oggi, l’Unità Europea, anche quest’ultima lastricata di storture e inciampi, ma quanto mai necessaria dentro un complesso e articolato processo storico di globalizzazione e di neo-riassetto geopolitico del mondo.
Che l’Unità del nostro Paese abbia i suoi tarli, le sue storture, i suoi conflitti e le sue sopraffazioni è storicamente acclarato. Ma se compariamo il processo unitario del nostro Paese ad altri eventi di natura storica, sicuramente di portata superiore e riconducibili a svolte epocali, troveremmo un’infinità di storture, ma che non inficiano le conquiste ottenute. Si pensi all’evento storico per eccellenza che precede il nostro Risorgimento e che, per molti aspetti, lo alimenta dal punto di vista culturale e ideale: la Rivoluzione Francese. Le teste tagliate agli stessi protagonisti del più grande sovvertimento dell’ordine europeo e mondiale (Solo la Rivoluzione d’Ottobre può essere accostata per gli influssi esercitati in età contemporanea) dovrebbero gettare una luce oscura sull’intero impianto rivoluzionario e sul nuovo ordine determinato dalla svolta, pur con le sue ricadute e le sue ripartenze? Il nuovo assetto ideale, soprattutto, e, alla lunga, la sua affermazione politico-statuale per proiezione istituzionale nel contesto dei nuovi stati nazionali in Europa, è un valore o no? Le storture e le cadute della Rivoluzione Francese possono mai portare a far capolino tra noi il vecchio adagio: “Si stava meglio quando si stava peggio?”. Per quanto mi riguarda sicuramente no!
Ma se scendiamo a una comparazione più pragmatica mi sento di fare, a te e a me stesso, la domanda: “Ma poteva, secondo te, reggere dentro un contesto ed un nuovo assetto europeo di Stati nazionali, l’Italia formata dentro una carta geografica politica di sette staterelli e con una popolazione complessiva che, subito dopo l’Unità, ammontava a soli 28 milioni di abitanti?”. Non c’erano Ferriere di Mongiana o altri fiori all’occhiello che dir si voglia che potevano reggere dentro un quadro europeo dinamicamente modificato dal punto di vista politico ma, soprattutto, economico!
Una risposta che ci porta, pure, all’oggi. Tutte le storture di questo mondo può avere la nostra Europa, ma cosa sarebbe l’Italia (ma potremmo citare qualsiasi altro Paese europeo) senza la cornice ideale, culturale, economica di coloro che l’hanno concepita come baluardo di civiltà politica ed economica! E non siamo, ancora, uno Stato federale come, secondo me, dovremmo esserlo!
Quindi, carissimo Erminio, altro che ironizzare sul “Peppe nazionale in camici rossa” o chiamare a processo la massoneria! Quella massoneria non confonderla, pure tu, caro Erminio, con i “trastuli dei grembiuli odierni”. Quella massoneria e gli ideali mazziniani che in Italia l’hanno meglio personificata, vanno iscritti a un pensiero nobile che nulla ha a che vedere con i “trastuli”, appunto, della cronaca massonica odierna.
Quel disegno unitario è il risultato dell’unica rivoluzione (Purtroppo, elitaria e non popolare) che si è promossa e consumata sul suolo italiano. Le altre rivoluzioni o sono state farsette (Vedi quella fascista, più di parata e di gagliardetto che di contenuto) o sono celebrazioni di rivoluzioni altrui. L’Italia, tranne lo spaccato risorgimentale, non è stata e non è terra di rivoluzione! Quella risorgimentale, per tanti versi e con contenuto ristretto, invece, lo è stata. Peccato che il moto rivoluzionario ha avuto le ali subito tagliate (A partire dalla Rivoluzione Partenopea del 1799) o fatta rientrare in un moderatismo di stampo italiano nel tessuto socio-politico della giovane Nazione italiana. Ma il discorso, a questo punto, sarebbe abbastanza lungo e dovremmo riaprire il capitolo del trasformismo, vero cappio al collo della politica italiana fin dalle origini.
Ma, ritornando al nostro discorso, il Risorgimento italiano è stato l’unico moto rivoluzionario che è riuscito ad affermarsi nella nostra Italia e, soprattutto, a schierare sulla barricata il meglio della gioventù liberale dell’epoca. Non è un caso che gli allarmi e la repressione videro la convergenza della società retriva del tempo (specie meridionale): Chiesa-Potere costituito, per quanto mi riguarda quello borbonico.
Io, per riprendere il testo del tuo scritto, non sono assolutamente dell’idea di oscurare le deviazioni e le storture della Storia da te efficacemente messe in evidenza. Ci mancherebbe altro! Quelle teorie aberranti (che – ahimè! – ciclicamente riaffiorano nel nostro Paese in periodi di crisi) non solo vanno storicamente condannate senza “se” e senza “ma”, ma vanno raccontate con dovizia di particolari, specie, nell’universo della formazione italiana.
In conclusione, anche per “riprenderci la Storia”, carissimo Erminio, dobbiamo rivendicare il posto che meritano i Cinque Martiri di Gerace nel Pantheon dei Padri della Patria e, soprattutto, nei libri in uso nella scuola italiana. Altrimenti una storia partorita da élite illuminate del pensiero liberale italiano ed europeo (dentro mettiamoci orgogliosamente il Sud e la Locride, teatro della rivolta dei Cinque Martiri di Gerace), rimarrà nel cantuccio elitario della cultura non partecipata. Che, lo voglio ricordare, non è la missione né della Cultura con la “C” maiuscola, né della Scuola, anche questa, con la “S” maiuscola”.
Vito Pirruccio