Ciò che io chiamo relazioni di servizio sono quelle che intratteniamo, frettolosamente, e in modalità esclusivamente finalizzata ad ottenere un servizio, o un bene, con quelle persone che lo forniscono. Per esempio, con i commessi di un supermercato. Con i camerieri. Con il benzinaio. Con altri.
Mario Alberti
Adesso vi parlerò delle relazioni di servizio.
Riflessione che di fatto è il bottino dell’ennesimo furto di storie.
Ma prima di farlo devo spiegarvi che sono, appunto, le relazioni di servizio. Apparente ossimoro. Anzi, concreto ossimoro.
Relazionarsi e servire stento, francamente, a metterli insieme.
Sono due colori senza armonia.
Ciò che io chiamo relazioni di servizio sono quelle che intratteniamo, frettolosamente, e in modalità esclusivamente finalizzata ad ottenere un servizio, o un bene, con quelle persone che lo forniscono.
Per esempio, con i commessi di un supermercato.
Con i camerieri. Con il benzinaio. Con altri.
Tutto inizia e finisce nell’arco di una fornitura veloce di un bene da utilizzare.
O di un caffè.
Dai, che piano piano ci stiamo arrivando.
I fatti, ormai lo sapete, planano sul foglio con molta calma e indugiano in aria prima di atterrare. Chiedono, ed ottengono, la dignità dell’approfondimento.
Della riflessione.
Dell’analisi frutto di azzardata e reiterata elucubrazione.
La statale 106, nel primo pomeriggio, è una lingua grigio scirocco senza possibilità alcuna di respirare.
Le macchine che incrocio sembrano passare in dissolvenza, senza rumore.
I contorni sono sfocati, e l’asfalto frigge.
In un mondo grigio, le macchine appaiono tutte grigie.
È un pomeriggio svuotato dal colore, e vorrebbe, d’imperio, un momento, un’occasione, un’emozione per una necessaria restituzione di significato.
E così avviene.
In quest’orario così poco favorevole ai riflessi e incline alla sonnolenza, mi viene in mente un ricordo.
Penso, nostalgico, al latte di mandorla che la nonna che veniva da Messina filtrava con la mappina, ovvero lo strofinaccio, e bevevano insieme nella terrazza di Palizzi Marina.
Sono passati tanti anni, non ci voglio pensare molto.
Agli anni.
Ma al latte di mandorla si. Eccome se ci penso.
Mi fermo quindi al solito posto.
Solito per me, e per un paio di viaggiatori che nel corso degli anni mi hanno accompagnato nei rari viaggi in auto.
Come si sa, preferisco il treno.
È un bar di passaggio, sulla 106, appena usciti dal centro di un paese candido.
La prima volta che entrai in questo bar fu all’inizio della pandemia.
Ricordo come adesso la solitudine sulla statale 106, che sembrava una route californiana.
Deserta e a farci compagnia le scogliere di Capo Bruzzano e qualche posto di blocco.
Mi facevano passare sempre.
Codice Ateco consentito.
I bisogni della gente, in pandemia, crescevano dismisura.
Fu allora che conobbi il Bar dal pergolato gentile, esattamente come il proprietario.
Mi fermai sempre da lui, che si faceva precedere da un meraviglioso profumo di cornetti e flauti appena sfornati.
Non ho mai assaggiato uno. Ma il profumo era appagante.
E il gentile proprietario, giovane ma non troppo, prima grassottello, poi dimagrito, gentile e accogliente.
E discreto.
Due parole, non di più.
Il tanto che basta per sentirsi a casa senza essere a casa.
Dovevo capirlo subito che qualcosa, nel pomeriggio grigio, non andava come doveva andare.
Non c’era alcun profumo.
Mi dice subito che il latte di mandorla non devo pagarlo, me lo offre lui. Mi sembra di scorgere un velo di commozione.
Chiudo domani, mi annuncia.
Farò altro, e dopo vent’anni esatti chiudo.
Lo ringrazio, forse anch’io un po’ commosso.
Lo ringrazio per il garbo, per la presenza stabile e silenziosa.
Nei giorni dell’incertezza, una invisibile certezza.
Cinque minuti, non di più. Ci salutiamo dandoci la mano.
Siamo tornati a darci la mano, ed è la prima volta che me ne accorgo.
Riparto con un buco nello stomaco, ma non è la fame.
So che da domani mancherà un avamposto di gentilezza su una strada dura, e sarà una mancanza che si farà sentire.
E penso quante vite incontriamo di gente che ci serve, che brutta parola, un caffè. Cinquanta euro di benzina. Un panino con la mortadella.
Le loro vite non ci appaiono fin quando non diventiamo testimoni di un cambiamento che li tocca.
Di un indugio alla commozione.
Allora, se siamo attenti, avviene l’incastro.
Le nostre vite per un attimo si annodano.
Riparto piano pensando che mi piacerebbe aver rappresentato a nome di tutti quelli che al mattino, insieme al profumo dei cornetti caldi, hanno respirato gentilezza come me.
E fu in calore di un momento, e poi di nuovo verso il vento.
Irrompe, come sempre, il mio Faber.
A chi legge mi permetto di consigliare di respirare le vite invisibili della gente che ci da qualcosa con garbo.
Le piccole cose quotidiane che passano sepolte dal marasma del giorno, ma che senza di esse sarebbe un giorno grigio polvere.
E cerchiamo di ricambiare sempre, perché soltanto la cura e l’esercizio della gentilezza potrà rendere una vita piena e meritevole di essere vissuta.
Mi sembra, mentre passo dalle scogliere, che anche la grande roccia si stia inchinando verso il paese candido, come a omaggiare un ladro di storie ed un barman gentile con gli occhi umidi che ha portato un po’ di nostalgico colore un pomeriggio grigio asfalto.
Buona fortuna, barman gentile.
Non saprai mai che non è l’euro del caffè, ma una storia, il giusto compenso per chi sei.
Ovunque andrai.