Mario Alberti ci conduce per mano nella struggente storia di Carmelo e suo padre Leonardo, facendoci vedere come parlare con i bambini ci aiuterebbe a diventare persone migliori.
Mario Alberti
Come prosegue la vita di chi ha rischiato la vita? Come prosegue quella dei suoi cari?
L’essere umano vive quasi automaticamente. Mette in atto sequenze fisiologiche, cognitive, emotive con lievi o inesistenti scossoni, almeno fino a quando arriva il boato. C’è una vita prima ed una vita dopo, inevitabilmente aggrovigliata intorno a tale fatto dirompente.
Quasi due mesi fa, accade a Condofuri, paesino reggino sospeso tra il mare e la fiumara, che esplode una bombola di ossigeno per saldatura. Leonardo viene colpito in pieno e rimane gravemente ferito, ma si salva. La può raccontare, dunque, tale storia. Me la racconta ed ancor più di lui, a narrare la vicenda è Carmelo, otto anni, il figlio più grande di Leonardo.
Per fortuna ha rinfrescato e sono tornate le nuvole rosa che precedono il tramonto che, a fine luglio, comincia ad anticipare il suo arrivo. Subito dopo l’oleandro di fiumara, c’è la casa e il cantiere dove avvenne l’esplosione. Decido oggi di fare la mia prima intervista e, di fatto, non faccio nulla, ascolto.
Ha gli occhi neri Carmelo, letali. Ti ci puoi perdere dentro, in quel nero trasparente dove se ti addentri vedi giorni futuri. Asciutto e bruno, potrebbe interpretare, mettendo un berretto calato sugli occhi, un piccolo emigrante calabrese inizio del secolo scorso; oppure, Salvatore di Nuovo Cinema Paradiso edizione grecanica. Un bambino cresciuto intorno a due occhi come perle nere. Mi abbraccia e mi racconta com’è andata, in quel pomeriggio di inizio giugno.Senza vacillare mi dice di aver sentito una fortissima esplosione e, in mezzo ad un fumo nero e alto, aver visto il padre riverso a terra.
“Ehi Siri, chiama i soccorsi”, e Siri obbedisce.
I nativi digitali sono avanti, sbaglia di grosso chi pensa semplificato ritenendo che la tecnologia instupidisca. La tecnologia salva la vita. Non esita Carmelo a chiamare aiuto e subito dopo a lanciarsi nel fumo nero, come unico avamposto di speranza in un turbine di disperazione e rassegnazione rappresentato dalla maggior parte di adulti presenti.
“Mio padre non è morto”.
Mi racconta di aver detto così a tutti e poi di aver portato un cuscino per fargli appoggiare la testa. Lo immagino, Carmelo, mentre grida la sua concreta speranza. Lo immagino gridare con gli occhi. Leonardo non sente nulla. Non sente manco il gesto greco di Carmelo. Ma è solo momentaneamente assente. Tornerà presto. Una nube di fumo, un giovane a terra, un cuscino e un bambino con le mani bagnate del sangue del padre. È una scena omerica, anzi Virgiliana, se così si può dire. Un Enea che a modo suo prende Anchise sulle spalle. Mi è sempre piaciuta questa immagine, e adesso la sostituisco con un bambino che mette un cuscino sotto la testa del padre. Racconta tutto Carmelo, in modo fluente, mentre ammutolisco dall’ammirazione, ma non dallo stupore. Non rimango meravigliato perché penso che abbiamo ancora tanto da imparare dai bambini. La nostra mente ristretta dalla concretezza non riesce a posare il grandangolo della percezione sul mondo infantile.
Ci neghiamo spazi di crescita parlando poco o niente con i bambini quando, invece, parlando con i bambini diventeremo migliori.