L’emozione provata dagli esploratori che incontrano l’anima della terra nella fossa del Bifurto è solitaria, senza clamori, così come lo sono le più emozionanti esperienze della nostra esistenza. Così appare, il cinema di Frammartino, intimo, simbolico e spirituale.
“Il buco”, di Michelangelo Frammartino, ci cala letteralmente nell’Abisso del Bifurto insieme agli speleologi piemontesi che nel 1961 scoprirono la terza cavità carsica più profonda dell’epoca, in Calabria. L’anno prima, l’inaugurazione del “Pirellone” di Milano, il grattacielo più alto d’Europa. Il sud e il nord… In parallelo: la luce distensiva dei panorami della vallata e quella calda all’interno del “buco”; le parole lontane, sullo sfondo, fuori… gli echi, i ronzii, il suono delle gocce d’acqua, dentro.
Sembra di essere a capo di una spedizione negli abissi della propria anima da un lato e di far parte di quella stessa ardita impresa dall’altro.
I dialoghi, assenti: è un film da “sentire”. Cosa c’è in quella fessura? Cosa si prova a scendere nelle viscere della terra? Cosa vedono gli occhi dell’anziano guardiano di mandrie che osserva dall’alto il pascolo e la “sua” cavità? Si entra e si scende come l’acqua, lentamente, nel dettaglio della luce fioca, in un angolo dell’inquadratura che appare come tela (in movimento). È calarsi in una visione introspettiva, un ingoiare le parole (superflue), accogliere nel profondo la natura, lasciando fuori un mondo che innalza grattacieli di cemento. La televisione, mezzo di comunicazione di massa che conquista quel pubblico che prima era dei divi del cinema, dice della Milano che innalza sopra la città il suo simbolo di modernità, ma tace sugli speleologi partiti dal Piemonte per compiere l’impresa. Ce lo racconta il regista, quindi, premiato a Venezia 78 con il Premio Speciale della Giuria, portandoci in quel “buco” un po’ dimenticato, così lontano dalla mondanità, dalla frenesia quotidiana. È uno sguardo lento, che parla con i richiami profondi della “gola” di un anziano che dice cosa e a chi?
L’emozione provata dagli esploratori che incontrano l’anima della terra nella fossa del Bifurto è solitaria, senza clamori, così come lo sono le più emozionanti esperienze della nostra esistenza. Incontrare noi stessi è una scoperta estrema che ci vede trasformati, un elemento che cambia in un altro, secondo un principio di creazione continua, di pura magia…
Così mi appare, il cinema di Frammartino, intimo, simbolico, spirituale, ogni volta che ne guardo un’opera. Il suo sguardo essenziale che ritrae ciò che è presente da sempre, la Natura, è uno specchio di tutto ciò che vi possiamo trovare con i nostri occhi e pertanto è un cinema che può essere visto e rivisto, ogni volta da un punto di vista diverso, senza bisogno di aggiungere parole. Un cinema che va a “togliere”, come lo scultore che tira fuori l’essenza dalla pietra dura, una catarsi.
“Cala!”, dice uno degli speleologi… e noi caliamo con loro, per vedere, percepire, sentire.
Quanto si può dire di ciò che suscita emozioni profonde? Dal “buco” della nostra anima riemergiamo lungo tutti i titoli di coda restando frastornati, stupiti, meravigliati, per aver compiuto questo splendido viaggio dentro di noi…
Un’opera di delicata poesia e semplice bellezza, a tratti commovente.
È questa l’Arte! Applausi…
Daniela Rullo