“I dolori del giovane Irto” – parafrasando quelli del giovane Werther, di Goethe – annunciando il ritiro della candidatura alla presidenza della Regione hanno annunciato il funerale del Pd calabrese: un’anteprima delle esequie del Pd nazionale, dove Letta è stato lasciato dalle vecchie volpi “democomuniste” col cerino in mano.
La candidatura di Irto nata male è finita peggio. Anche dopo che il pompiere Boccia è arrivato da Roma con l’autobotte senz’acqua a spegnere l’incendio che il già presidente del Consiglio regionale della Calabria aveva appiccato col suo ritiro.
Irto, ha sperimentato l’ipocrisia e le falsità del “sistema dominante” dei partiti: entità astratte, liquide, che da Roma comandano e in Calabria (nella colonia) vengono docilmente ubbiditi. A Roma – per usare una metafora in linea col termine feudi, usato dallo stesso Irto – stanno i “latifondisti”, i feudatari, e giù, in fondo allo Stivale i “sudditi”: i sottomessi, i carcagniddi come si dice in Sicilia con un’espressione che indica bassa statura, non riferita solo all’altezza fisica, naturalmente.
Irto, dopo aver fiutato le trappole, tante, disseminate sul suo cammino verso quella sfortunata cattedrale, patria di nessuno, che è la Cittadella di Germaneto, ha gridato che il re (il Pd) è nudo: “Nel partito stallo e troppi tatticismi”. Letta, dopo che Irto si è sfilato, ha scoperto l’esistenza di una regione chiamata Calabria e reagito col paterno, ma anche supponente: “Vi mando Boccia”. Manco fosse il signor Wolf, quello di Pulp Fiction che risolve problemi.
La colonia Calabria
In Calabria si aspetta sempre che qualcuno arrivi da fuori per risolvere i problemi: da Roma, Milano o Napoli non ha importanza, purché sia forestiero. Del resto, è scritto nella storia: Aschenazi, Ausoni, Enotri, Lucani, Bruzi, Greci, Romani; e poi Bizantini, Normanni, Angioini, Aragonesi e infine i Savoia, che ci hanno portato il Regno d’Italia e mandato pure i generali, per sparare alle spalle dei ribelli per amore della loro terra. Così, volevano unirci alla nuova Italia.
Ci abbiamo fatto l’abitudine agli invasori, e ai nostri tempi ai moderni commissari; gente occhiuta e mai governante. Carcagniddi, spesso, anche loro, perché non è che mandino i migliori; vero ministro Speranza? Ma noi prendiamo tutto e il Pd è in questo tutto, di stampo coloniale.
È penosa l’immagine del partito già dei lavoratori e del ceto medio, che ha ereditato il pensiero e l’azione della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, che Boccia all’ora di pranzo ha tentato di accomodare, con una pace che è come quella delle terre sante del Medioriente.
Un tavolo romano? Per fare cosa?
Irto, il ribelle, va al tavolo romano con Letta e Conte, per fare cosa non è chiaro. Ma è questo il Pd di oggi, chissà come sarà quello di domani. Quello che era il “pensiero mescolato” (Dc e Pci) da Prodi, con l’Ulivo, si è trasformato in maionese impazzita, non commestibile. Hai voglia a tentare di rimediare aggiungendo ingredienti, nomi nuovi, nomi vecchi, transfughi. Il Pd calabrese, di Irto sì, Irto No, Irto quasi, è un partito come un gregge senza pastore, col cane da guardia che bada a che le pecore non scappino dal recinto e siano pronte ad essere munte, quando sarà necessario (elezioni).
È la stessa metafora della Calabria granaio di voti. Vengo, prendo, e scappo, col sacco pieno. Irto, prima del ritiro della sua candidatura, e anche adesso, non può non sapere dove sta, cioè in un partito che non c’è, o come dice lui, di feudatari. Ha gridato tardi che il re è nudo. Avesse avuto più coraggio, e anche idee, e una qualche paginetta di programma, avrebbe potuto tentare di costruire una sua leadership rivolgendosi al territorio, connettendosi con la Calabria eccellente, che esiste, contestando i commissari mandati da Roma, si chiamano Tizio o Caio. Commissari che hanno ormai funzione più di becchini che di guaritori di un partito malato. Ma se Calabria piange Roma non ride: un “Boccia”, col biglietto A/R non fa primavera.
Mimmo Nunnari