La faida di Cittanova non ha risparmiato i bambini. I piccoli Facchineri vivevano rintanati in casa, unico rifugio sicuro e, ad ogni minimo rumore, il terrore paralizzava i loro fragili corpicini e la paura ne attanagliava i loro cuori.
La faida di Cittanova non ha risparmiato i bambini. I piccoli Facchineri vivevano rintanati in casa, unico rifugio sicuro e, ad ogni minimo rumore, il terrore paralizzava i loro fragili corpicini e la paura ne attanagliava i loro cuori. Quelli che già andavano a scuola, costretti a uscire dal loro nascondiglio più protetto, vivevano l’incubo di essere un facile bersaglio, di essere uccisi in qualunque momento. Uno dei maestri capì che quei bambini erano ormai coinvolti nella faida del paese e non potevano continuare a vivere in quell’atmosfera di terrore. Ogni volta, che si apriva la porta della classe tremavano e si nascondevano: era l’uomo nero che veniva a prenderli, non quello delle favole che poi svanisce alle prime luci dell’alba, ma un essere sanguinario, spietato, al quale non avrebbero potuto sfuggire. Venne così informato il tribunale per i minorenni che autorizzò il trasferimento dei bambini in una comunità non si trattava solo di rassicurarli, era in gioco la loro stessa vita: l’omicidio dei due fratellini, Domenico e Michele, di nove e dodici anni, trucidati il 13 aprile del 1975, aveva dimostrato che neanche i bambini sarebbero stati risparmiati. Era la notte di Natale quando i piccoli Facchineri, rannicchiati sul fondo dei pulmini dei carabinieri, abbandonarono Cittanova. I militari erano arrivati nel cuore della notte per proteggere i piccoli durante la fuga: nessuno doveva sapere dove sarebbero andati. Con loro c’erano anche le madri che, disperate, avrebbero fatto di tutto per salvarli. Il primo tentativo, fallito, fu quello di mandare tutti in qualche paese estero. Poi venne coinvolta una piccola comunità di accoglienza, un gruppo di volontari che tennero i piccoli con sé. Tra loro vi era Domenico, col suo visetto chiaro e certi occhietti vivaci, nerissimi come i capelli, insieme ai suoi fratelli, di qualche anno più grandi. Il loro padre era stato assassinato tanti anni prima. Quando fuggirono da Cittanova, Domenico aveva pochi anni, tutti vissuti rinchiuso in casa con un cane lupo che dava l’allarme ad ogni piccolo movimento sospetto. Era cugino di Domenico e Michele Facchineri e sapeva della loro sorte, gliene aveva parlato la nonna; sapeva del padre, dei parenti uccisi, del sangue che scorreva nel suo paese e che tutto questo riguardava la sua famiglia, nella lotta infinita con quella dei Raso-Albanese. In seguito, il bimbo fu dato in affidamento a varie famiglie, mentre i fratelli restarono in comunità. era molto provato dalla terribile esperienza che aveva caratterizzato la sua breve esistenza: non mangiava, sudava freddo, aveva persino paura di uscire nel balcone di casa. Quando veniva tranquillizzato, quando gli veniva detto che non vi era nulla da temere, il bambino, con un filo di voce e gli occhi sgranati, rispondeva impaurito: “vengono da lì e mi ammazzano”. Neanche in casa si sentiva al sicuro e la notte personaggi crudeli, i nemici della sua famiglia che lui chiamava “tartagni”, popolavano i suoi incubi. Non parlava molto, era un bimbo introverso, mesto, e mai un sorriso stemperava il suo faccino triste. Gli mancava la mamma. Qualche anno prima la comunità era riuscita a far accogliere madre e figli presso una famiglia umbra. Ma era troppo rischioso e i piccoli erano tornati in Calabria. Non passò molto che un altro trauma acuì la fragilità del piccolo Domenico: la madre venne condannata a 17 anni di carcere, perché coinvolta in un sequestro di persona. Così passava le sue giornate a chiedersi perché avevano portato via la sua mamma e come avrebbe fatto ad attendere così tanto tempo per rivederla. Del papà gli avevano raccontato che era un brav’uomo e che sapeva ballar bene, ma in fondo non lo aveva mai conosciuto, era, per lui, una figura immaginata, priva di calore. Ma la sua mamma no, non poteva immaginare di vivere senza di lei. Era stata lei a proteggerlo, a consolarlo, a condividere con lui anni di solitudine, disperazione, paura. Domenico, a fatica, avrebbe affrontato i fantasmi del passato. Le famiglie che lo ospitavano, di volta in volta, sarebbero riuscite a strappare sempre più sorrisi a quel bimbetto triste. I cattivi sarebbero rimasti confinati nel mondo degli incubi, che non lo avrebbe mai abbandonato del tutto. Solo nel buio della notte potevano apparire minacciosi e terribili, ma sapeva che la luce del giorno li avrebbe fatti svanire, rischiarando un mondo nuovo che, ormai, era anche il suo.
Cosimo Sframeli