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Don Italo il “Santo” dei poveri

Il 10 settembre è stata avviata l’inchiesta diocesana per la beatificazione di Italo Calabrò sacerdote della diocesi di Reggio Calabria-Bova, conosciuto come il Parroco “Che si è prodigato per gli ultimi”. Grazie alla testimonianza del fratello Corrado ci siamo addentrati nella conoscenza di quest’uomo, pronto ad essere santificato dalla chiesa cattolica.

 Italo Calabrò nasce, a Reggio Calabria, il 26 settembre 1925, da una famiglia molto credente. Mentre frequenta il liceo classico “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, comunica ai suoi genitori il desiderio di diventare sacerdote. La madre Teresa  è contenta; mentre il padre Giovanni, all’iniziò, dimostra una certa delusione, ma alla fine accetta la decisione del figlio, a condizione però che termini gli studi. Così, a 17 anni, dopo la maturità classica, entra nel seminario diocesano Pio XI, di Reggio Calabria, dove completa la sua preparazione. I compagni e i docenti lo ricordano come il migliore di tutti i seminaristi non solo per la bravura nello studio, ma anche per la generosità nell’aiutare e incoraggiare chi faceva più fatica ad andare avanti. Il 25 aprile 1948 è ordinato sacerdote dall’arcivescovo Antonio Lanza, del quale diventa subito segretario. Da questo momento, si prodiga per aiutare tutti quelli che ne hanno più bisogno. Diventa educatore e insegnante nel Seminario arcivescovile, assistente dei giovani di Azione Cattolica e poi degli uomini cattolici (Fuic), segretario e direttore dell’Ufficio amministrativo diocesano, cerimoniere arcivescovile e parroco di San Giovanni di Sambatello. Ha contribuito in maniera decisiva alla realizzazione di due eventi d’eccezionale portata storica: le visite di Giovanni Paolo II in Calabria nel 1984 e nel 1988 durante la Celebrazione del XXI Congresso eucaristico nazionale.

Viene considerato un prete santo, perché rispose alla chiamata del Signore con grande fede e spirito di sacrificio, amando Dio e i fratelli. La sua casa era luogo d’accoglienza e scuola di vita spirituale: aveva allestito una camera per la pronta accoglienza dei giovani da lui seguiti che si trovavano in difficoltà. Gli ospiti e i dimessi dell’Ospedale Psichiatrico, le ragazze madri, i barboni, i minori abbandonati fuori e dentro gli istituti, i disoccupati, erano per questo sacerdote persone da servire, da liberare dall’emarginazione, da restituire alla dignità di uomini. S’impegnò per fare uscire dagli istituti quanti più bambini, malati mentali, donne promovendo la realizzazione di leggi e strutture più umane e adeguate. Lavorò instancabilmente con i giovani, quelli del suo “Panella” innanzitutto, la scuola dove insegnò per tanti anni, educandoli e incoraggiandoli ad avere fiducia in sè stessi e mettendoli nella condizione di fare esperienze di vita liberanti. Conosceva i nomi e le storie di tutti loro e a ciascuno cercava di dare una mano per risolvere qualche problema. “I poveri”, diceva – “sono i nostri padroni. I poveri sono Cristo, l’ottavo sacramento”.

Don Italo condannò la mafia indicando alla comunità ecclesiale e civile la via della ferma denuncia. Durante un funerale indirizzò un messaggio di pace a delle persone in odore di ‘ndrangheta: “Se vi parlo è perché vi voglio bene”.

“All’improvviso, nel mese di aprile 1990, il Signore mi ha chiaramente avvertito che la mia giornata volgeva rapidamente al declino”. Sono le parole con le quali don Italo Calabrò inizia il suo testamento spirituale scritto il 9 giugno 1990, pochi giorni prima della sua morte, avvenuta il 16 giugno 1990, a causa di un tumore.

Ecco il ricordo commovente del fratello Corrado: “È bello che l’avvio del processo di beatificazione di don Italo sia avvenuto ai piedi dell’Effigie della Madonna, che tante volte don Italo ha accompagnato in processione. È un momento di forte emozione in cui la Chiesa reggina si stringe intorno a don Italo. Cosa dire su mio fratello? Segnò una svolta nella città di Reggio. In una stagione in cui imperava il motto privato è bello, don Italo – con un gruppo di giovani che raccolse attorno a lui all’Istituto industriale Panella – diede un altro obiettivo: l’attenzione agli altri. Disabili fisici e psichici (soprattutto dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici), anziani abbandonati, ragazze madri, malati di ogni specie di malattia, compreso l’Aids, giovani che il Tribunale dei minorenni gli affidava. Don Italo promosse forme innovative di assistenza. Creò le “case famiglia” e le “case di accoglienza”. Un ricordo personale? A Natale solitamente gli ospiti delle case-famiglia e accoglienza che avevano qualche parente, anche lontano, tornavano nella propria famiglia. Ma c’era qualcuno che non aveva proprio nessuno e allora veniva da noi. Mamma Teresa allungava la tavola ed erano tavolate di venti persone con questi ragazzi che entravano a far parte della nostra famiglia. È da quelle esperienze che è maturato in don Italo il concetto di condivisione. Raccontava monsignor Nervo, cofondatore della Caritas nazionale insieme a don Italo, che Italo è stato un delegato diocesano della Caritas molto attivo, ma che il segno più incisivo da lui lasciato nella Caritas è stato il concetto di “condivisione”. Condivisione significa «non fare la carità da distante a distante, ma condividere la situazione dell’assistito, compenetrandosi in essa come se fosse la propria». Per restare accanto ai suoi assistiti e ai giovani che lo affiancavano nella sua opera don Italo rinunciò per due volte alla nomina a vescovo. Io lo appresi dall’allora Segretario generale della conferenza episcopale italiana, monsignor Camillo Ruini, in occasione degli incontri tra la delegazione pontificia e quella italiana per l’applicazione del Concordato. Don Italo non ne aveva mai fatto cenno. La rivelazione della malattia di mio fratello avvenne a Roma. Il professor Cortesini, chirurgo d’avanguardia, presso il quale lo accompagnai, era imbarazzato. Non riusciva a trovare le parole. «Professore – gli chiese don Italo – ho bisogno di sapere quanto tempo mi resta da vivere!». Il professore  Cortesini tergiversava, ma don Italo incalzava: «Professore, io devo sapere. Ho le mie opere da sistemare. Mi restano anni, mesi, settimane?». «Più quest’ultima ipotesi», rispose alla fine Cortesini. Mia figlia Maria Teresa che era lì con noi scoppiò in lacrime. Don Italo abbassò le palpebre e chinò il capo; rimase un momento in raccoglimento. Quando rialzò il capo il suo sguardo era fermo, il suo volto disteso. Nei quarantacinque giorni che seguirono fino alla sua morte, un flusso continuo di visitatori venne a trovarlo. Don Italo riceveva tutti. Ho visto giovani sacerdoti e suore interrogarlo con lo sguardo, come per rispondere a un’inquietudine interiore. A tutti Italo rivolgeva una parola rasserenante e quando non poté più parlare, un sorriso. Molti ricordano ancora le esequie di don Italo. Dozzine e dozzine di confratelli concelebrarono il rito funebre. La Cattedrale era gremita, ma anche nelle strade adiacenti, sui marciapiedi, c’era gente assiepata. Ho visto, quando passava il feretro, persone anche più anziane di lui piangere, inginocchiarsi e chiamarlo “Padre”.

Così, a 33 anni dalla morte del religioso è partita l’Inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità di quest’uomo straordinario che si è adoperato, fino all’ultimo respiro, per aiutare il prossimo. Si legge nelle motivazioni: “Don Italo fu antesignano nella lotta contro la mafia, ispirando la prima pronuncia in tal senso della Conferenza episcopale calabrese, ma anche assistendo sia i figli delle vittime sia quelli dei mafiosi per distoglierli dalla via criminale sulla quale le loro famiglie li instradavano”.

 

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