Marcello Furriolo commenta l’articolo recente di Filippo Veltri su Corrado Alvaro e pone alcune considerazioni di carattere personale sul merito.
Marcello Furriolo
Ha ragione Filippo Veltri a riprendere un illuminante articolo di Corrado Alvaro del 5 ottobre 1955, pochi mesi prima di morire, scritto sul primo numero dell’Espresso formato giornale, già recuperato dall’amico Aldo Varano nel prezioso archivio dei suoi libri e giornali.
L’articolo di Corrado Alvaro era stato richiesto dal giornale diretto da Arrigo Benedetti per conoscere la sua opinione “sulle condizioni in cui si sono venuti a trovare i contadini e i pastori dell’Aspromonte in seguito alle nuove operazioni di polizia contro il banditismo e la malavita”.
L’amico Veltri di quell’articolo, che, vedremo risulta di una attualità e di un coraggio straordinari, utilizza il paragrafo finale in cui il grande scrittore di San Luca conclude la sua rigorosa analisi affermando che “il problema della società calabrese è un problema di lealtà… di creare un’atmosfera di collaborazione con i poteri centrali, l’ ‘ operazione Aspromonte ‘ rischia di dare risultati opposti a quelli che si propone”.
Secondo Filippo per dare seguito alle parole di Alvaro occorre firmare un “patto di lealtà “ tra le “ forze migliori ” di questa regione, che devono impegnarsi a “non riesumare vecchi e passati vittimismi, brontolii sommessi e meno sommessi, piagnistei, recriminazioni, lamentazioni.”
La tesi di Veltri, per molti versi condivisibile, è che fino a quando la sanità in Calabria è in queste condizioni e i trasporti vivono le problematiche di arretratezza che ben conosciamo i calabresi hanno di che lamentarsi, e la ‘ndrangheta, “che esiste, eccome se esiste”, non può essere un alibi per nessuno per continuare ad emarginare questo territorio.
Ma torniamo ad Alvaro, che così inizia il suo articolo: “Con uno spiegamento di inviati speciali, la stampa italiana si è buttata sulla ‘operazione Aspromonte’, secondo il termine cinematografico adottato per l’occasione. In realtà, vi si gira un filmetto mediocre che non vale tanta pubblicità. I Romeo e i Macrì sono esistiti da cinquant’anni, lo sanno i prefetti che si sono succeduti nella provincia e devono saperlo le forze dell’ordine nei vari comuni…Una normale operazione di polizia, e meglio una costante azione di polizia, poiché i nomi degli affiliati al banditismo li conoscono perfino i ragazzi della provincia di Reggio Calabria, sarebbero bastate a ripulire l’ambiente, a evitare le reviviscenze, e a scongiurare le dicerie dei reggini, secondo cui l’azione, con l’apparato di uno stato di assedio, sarebbe stata intrapresa soltanto perché un sottosegretario di Stato calabrese è stato per errore fatto segno a un assalto dei banditi.”
Questo scriveva il più profondo conoscitore dell’animo calabrese 70 anni orsono e, forse. tracciava le linee di confine del rapporto e della percezione della società di questa regione nei confronti dello stato centrale. E non sembra un caso che questa descrizione mantenga la sua drammatica attualità, sia perché i nomi dei cosiddetti “capibastone” rimangono pressoché gli stessi, sia perché l’approccio dello Stato nella lotta al banditismo, nel frattempo denominato ‘ndrangheta, è rimasto identico. Anche se il fenomeno è diventato planetario e culturalmente e antropologicamente, forse, ha perso qualsiasi radice con la Calabria. Eppure è qui che si ricercano cause ed effetti del fenomeno con il rischio di criminalizzazione di un’intera società. Eppure è su questo terreno che lo Stato ha impegnato le maggiori e migliori risorse, magistrati, forze dell’ordine e mezzi economici e tecnici, che se fossero stati utilizzati in egual misura e in termini di qualità in sanità o per risolvere i problemi delle infrastrutture, delle scuole, dell’ambiente molto probabilmente oggi discuteremmo di un’altra Calabria. La narrazione, con un termine abbastanza improprio e abusato, della Calabria sarebbe già cambiata.
Proprio l’articolo di Corrado Alvaro dell’ Espresso è lì ad indicarci in maniera lapidaria che c’è un solo modo per raccontare questa terra: conoscerla, amarla e viverla con coraggio nella sua complessità, senza pregiudizi e non utilizzarla come stereotipo delle sue debolezze, delle sue contraddizioni, dei suoi errori e delle sue marginalità. Non è un caso che dopo Alvaro, che peraltro non utilizzò mai il banditismo come centro di ispirazione determinante della sua letteratura, nessuno scrittore calabrese ha rappresentato la Calabria nei suoi tratti identitari più veri, in una dimensione poetica mai più raggiunta. I racconti di Gioacchino Criaco, Mimmo Gangemi, Carmine Abate, Gianfrancesco Turone, apprezzati scrittori calabresi, avranno anche ispirato serie tv e film di successo, portando in scena storie di ndrangheta, ma sicuramente non hanno contribuito a liberare definitivamente i calabresi dallo stigma della criminalità organizzata, che ne ha frenato e condizionato il riscatto sociale e lo sviluppo economico.
Filippo nel suo appassionato articolo richiama un tentativo lodevole di qualche anno fa di fare di Africo il luogo della rinascita, di una nuova lettura della Calabria, facendo partire da quel paese, che lotta tra ‘ndrangheta e rivolta, una stagione di forte impegno e stimolo per la politica e per gli intellettuali. Ma non si può dimenticare che il primo che ebbe l’idea di scrivere un memorabile reportage su quella realtà, nel 1979, fu uno scrittore e giornalista di Cremona, Corrado Staiano con il suo straordinario “Africo- Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta” che “illumina di una luce improvvisa i segreti di una cultura e di un modo di vita, i rapporti tra sudditi e potenti, tra società locale e governo centrale, e l’inganno e la sopraffazione che stanno alla base di un patto sociale coatto; e insieme, nonostante tutto la speranza e la volontà di opposizione e di lotta di gruppi e di singoli il cui coraggio solitario sollecita qualcosa di più della nostra ammirazione”.
Una grande lezione per la cultura e gli intellettuali calabresi.
Allora, forse, prima di un patto di lealtà, pur auspicabile, sarà opportuno che i calabresi sappiano confrontarsi, con la schiena diritta, con lo Stato centrale e con la politica, reclamando per primi un cambio radicale dei codici di lettura dei bisogni del territorio, dando prova che la Calabria è in grado di costruire il suo futuro nella normalità, sconfiggendo definitivamente i condizionamenti della ‘ndrangheta e le suggestioni del populismo e del sovranismo.
Ma, se possibile, ricostruendo finalmente la propria identità e la propria unità, ciclicamente messi a repentaglio perfino da una partita di pallone.