Oggi parlerò di una donna che non si è mai tirata indietro di fronte agli ostacoli della vita, una donna che con intelligenza e sensibilità, fino all’ultimo giorno della sua vita, ha cercato di concretizzare tutti i suoi obiettivi.
Clelia Pellicano nacque a Napoli nel 1873, ebbe una vita breve, ma intensa. Sua madre era Pierina Avezzana, figlia del generale Giuseppe, amico di Garibaldi; suo padre era il barone Giandomenico Romano, giovane deputato del Parlamento italiano nel 1870. Sposò a 16 anni il marchese Francesco Maria Pellicano di Gioiosa Jonica, appartenente ai duchi Riario-Sforza, anch’egli deputato. È stata una delle rare unioni in cui la ragione e il sentimento sono riusciti a trovare una combinazione vincente. Dal loro matrimonio, sono nati sette figli che Clelia allevò, per lunghi periodi, nella tenuta del marito a Gioiosa Jonica, alternando la residenza a Castellamare di Stabia, a Napoli; e nella sua villa a Roma, il cui salotto fu frequentato dai ministri Orlando, Salandra; da intellettuali, scrittori e poeti come Luigi Capuana e Matilde Serao. Rimasta vedova nel 1909, si occupò del patrimonio familiare, dimostrando di essere un’ottima imprenditrice, creando persino a Prateria (una frazione di San Pietro di Caridà, in Calabria) un’impresa forestale. Era un’appassionata amazzone e un’europeista convinta, parlava francese, inglese e italiano, ma la sua grande passione è stata la scrittura, tanto da diventare una giornalista che, a quei tempi, era una rarità per una donna. Fu corrispondente della gloriosa rivista mensile “Nuova Antologia”, fondata nel 1866 a Firenze, poi trasferita a Roma, nella quale collaboravano scrittori come Pirandello. In seguito, collaborò anche con “Flegrea” e alla rivista quindicinale torinese “La Donna”. Scrisse, per quest’ultima rivista, tre reportage da Londra. Come scrittrice, usò lo pseudonimo di Jane Grey (nome di una sfortunata regina inglese, salita al trono dopo la morte di Enrico VIII). Nelle sue opere letterarie analizzò tutti i temi spinosi dell’epoca, ispirandosi al verismo di Verga e all’ironia pirandelliana; ma nel suo stile c’era anche l’influenza di Flaubert e di Maupassant. I suoi primi racconti vennero pubblicati sulla rivista “Flegrea”, seguirono le novelle come “Coppie” e “La vita in due”, romanzi audaci dove si raccontava le difficoltà del matrimonio, i problemi sentimentali, le incomprensioni e i rapporti con i figli, tra le cattiverie, le ingiustizie e le ipocrisie della società contadina. Nel 1908 pubblicò “Novelle Calabresi”, la sua opera più importante. Sono racconti tutti incentrati sulla descrizione ironica e, a volte, critica della realtà di Gioiosa, con i suoi riti e le sue feste religiose, in particolare quella di San Rocco. Alcune di queste novelle, come “Colpo di stato” e “Schiava” furono lodate persino da Benedetto Croce. “Novelle Calabresi” è stato riedito dalla Arnaldo Forni Editore di Bologna nel 1987.
Donna forte e decisa, ha sempre lottato per vincere le sue battaglie, in particolare quella sui diritti delle donne. Sfruttò, infatti, la sua posizione privilegiata e le sue conoscenze, partecipando a conferenze femministe e a battaglie per il diritto delle donne al voto, all’istruzione, per l’affermazione di una dimensione extradomestica della donna e della rivendicazione del ruolo femminile nella stampa dell’epoca. Degna la sua introduzione augurale a Londra, dove si era recata in qualità di socia delegata del CNDI (Consiglio Nazionale Donne Italiane), per partecipare al Congresso Internazionale femminile che lei chiamava “La nostra alleanza”, sorta fin dal 1902. Era molto orgogliosa di essere rappresentante dell’Italia ed ecco cosa disse, in quell’occasione: “Ricordatevi voi donne d’ogni razza, d’ogni paese, da quelli dove splende il sole di mezzanotte a quelli in cui brilla la Croce del Sud, qui convenute alla comune aspirazione della libertà, all’uguaglianza, strette da un nodo di cui il voto è il simbolo, ricordatevi che il nostro compito non avrà termine se non quando tutte le donne del mondo civilizzato saranno sempre monde dalla taccia di incapacità, d’inferiorità di cui leggi e costumi l’hanno bollata finora!” Nel 1910 scrisse la prefazione del libro “La legge e la donna” di Carlo Gallini, opera che sollecitava il Parlamento Italiano ad ammettere le donne al voto. Nel 1912 curò una sottoscrizione nazionale e intervenne, con un contributo personale, per favorire il trasporto e la cura dei malati. Nel 1914 partecipò ad un congresso, a Roma, per rivendicare i diritti sociopolitici delle donne e per chiedere una migliore retribuzione del lavoro femminile al pari degli uomini. Esempio di donna coraggiosa e dinamica, capace di trasmettere valori è riuscita a tracciare, in maniera approfondita, le caratteristiche delle donne calabresi in un’epoca in cui il cosiddetto “Sesso debole” stentava ad uscire da uno stato di sottomissione culturale e sociale. Non fece in tempo a veder realizzati gli obiettivi di emancipazione e il riconoscimento dei diritti delle donne, per le quali aveva lottato, perché morì giovane, appena cinquantenne, il 2 settembre 1923. La sua grinta, la sua audacia e la sua forza interiore non si sono mai spente, ma sono stati uno slancio in più per continuare le sue lotte, fino al raggiungimento del traguardo finale.
La marchesa Pellicano senza nessuna ostentazione, ma con molta umiltà è riuscita a smuovere le coscienze e a portare un po’ di modernità tra le menti chiuse della Calabria dell’epoca e se noi donne, oggi possiamo votare, possiamo studiare e abbiamo un ruolo nella società, il merito è anche di questa meravigliosa donna che non ha mai abbassato gli occhi di fronte alla prepotenza e l’egoismo maschile, ma ha camminato sempre a testa alta, raccontando il suo modo di vedere la vita e combattendo per realizzare un mondo migliore.