Nella “civile” Padania mai esistita davvero – è un’invenzione dell’ottusità – va di moda la barzelletta dei terremoti: per sanare la piaga del Sud Italia ne occorrerebbero due disastrosi, a distanza di tre giorni uno dall’altro, il primo per eliminare chi vive quaggiù, il secondo per spazzare via anche i parenti emigrati accorsi per i funerali.
Naturalmente, tocchiamo ferro e quant’altro a mo’ di scongiuro. Registriamo però che ci hanno appiccicato l’etichetta di selvaggi, di gente dalla vita perduta, all’ingrosso, in continua lotta per la sopravvivenza in una giungla disseminata di campi minati e dove la scampano in pochi.
Se però decidessero di scendere e di osservarci con occhi onesti, dovrebbero riconoscere che noi viviamo meglio di loro, meglio che altrove, che questa terra non è un’unica trincea sanguinosa, che anche qui piove grandine e pioggia piuttosto che pallottole e bombe, che non è il Far West che torna utile raccontare. E farebbero caso che nelle vene ci scorre il sangue di un popolo che forgiava civiltà, pensiero, arti eccelse, democrazia, mentre gli antenati dei “forza, Etna” ancora erano parenti più prossimi alle scimmie che all’uomo, non avevano smesso la coda, vestivano pelle di pecora, i più progrediti incidevano con pietre appuntite i graffiti – per lo più i contorni degli animali con cui si spartivano cibo e giaciglio – nelle pareti delle caverne dove abitavano.
Ven, 18/01/2013