Leggende aspromontane: fontane di latte e montagne di pane. Forse l’UNESCO non lo sa, ma il pane è stato creato in Aspromonte. Sì, il pane: quello che si mangia in tutto il mondo. E anche le fontane paradisiache da cui sgorga latte invece che acqua sono state create in Aspromonte. E chissà quante cose ancora …
L’Aspromonte è sempre stato un terreno fertile: di alberi, di piante, di favole, di canzoni, di dicerie. Ogni suo abitante sa bene che almeno un Santo, o un Mostro, o una Fata hanno abitato i suoi boschi e operato miracoli sulle sue rocche inaccessibili e per i suoi ripidi sentieri. Ma quelle che più di tutte le altre fanno da riflesso alla cultura calabrese, caratterizzata da sentimenti limpidi e abitudini frugali, sono legate al cibo, quello più antico e diffuso, quello più semplice e delizioso: parliamo del pane.
La leggenda del lievito madre
Il nostro compito di sognatori è quello di credere nelle favole. Fra quelle più diffuse in Calabria ce n’è una che racconta come il pane sia stato “inventato” in Aspromonte. O meglio: la farina e l’acqua si impastavano anche altrove, ma l’ingrediente segreto (parlo del lievito madre) lo custodiva la Sibilla, una donna che possedevano saperi insoliti, affascinanti e alquanto utili. La leggenda racconta che la Sibilla d’Aspromonte fosse in grado di cucinare un alimento prelibato, profumato e fragrante che nessun altro nel paese era in grado di preparare; molte donne avevano cercato di portarle via la ricetta, ma lei aveva sempre rifiutato di rivelarla ad anima viva. Tuttavia, la Sibilla aveva accettato, come tutti i sapienti del passato, di istruire un gruppetto di allieve, tra le quali un giorno arrivò la Madonna bambina. Ogni giorno la piccola Maria osservava la sua maestra impastare l’acqua e la farina e aggiungervi poi il famoso ingrediente; appena la Sibilla sfornò il pane, le allieve videro con stupore che era alto e soffice, molto più fragrante di quello basso e secco che si mangiava in paese. Maria si fece coraggio e rubò un pezzetto dell’impasto della Sibilla, lo nascose e la sera lo portò alla mamma, che lo diede poi alle altre donne del villaggio.
La Sibilla si arrabbiò moltissimo con Maria a causa del furto e divenne invidiosa di lei perché sapeva – essendo una veggente – che sarebbe diventata la madre di Gesù. La leggenda racconta che, a causa della sua cattiveria, fu punita da Dio e si ritirò in un antro vicino al santuario di Polsi, dove visse isolata per l’eternità. In prossimità di San Luca c’è un luogo roccioso che ancora oggi è conosciuto come «il castello della Sibilla» e la statua della Madonna, alla fine di ogni processione, viene portata dentro la chiesa di corsa, perché non dia troppo a lungo le spalle alla sua invidiosa maestra.
Pietra Cappa
L’enorme costone di roccia che si trova in Aspromonte è talmente insolito che fa spesso parlare di sé; inutile dire che la sua mole ha dato i natali alle più svariate dicerie: com’è arrivata qui questa pietra? Dev’essere l’opera di un santo o di un demonio! Dev’essere la dimora di un mostro! Dev’essere frutto di una qualche terribile magia!
La leggenda più diffusa intorno a Pietra Cappa riguarda Gesù e racconta questo: il Maestro e i suoi discepoli, un giorno, giunsero in Aspromonte. Gesù chiese loro di raccogliere delle pietre e tutti si misero a lavoro; solamente Pietro, in un momento di pigrizia, raccolse un piccolo ciottolo. Quando finalmente si fermarono, ognuno portando il proprio fardello, Gesù trasformò le loro pietre in pane. Tutti mangiarono in abbondanza eccetto il povero Pietro, che si ritrovò tra le mani un minuscolo pezzetto di pane; pensò, affamato, che la prossima volta avrebbe raccolto un macigno. Gesù, capite le intenzioni di Pietro, fece raccogliere nuovamente altri sassi e questa volta Pietro ne prese una grande, ma il Maestro non le ritrasformò. L’apostolo protestò, ma capito l’errore di aver peccato di malizia chiese al Signore che ad imperitura memoria, quell’enorme masso trovasse dimora proprio nel luogo in cui si trovavano. Gesù acconsentì e fece lievitare il masso, che diventò un monolite enorme.
La leggenda prosegue e racconta che, quando Pietro divenne il custode del Paradiso, si trovò di fronte il sergente che aveva schiaffeggiato Gesù al Sinedrio. Ricordandosi di quell’enorme masso, prese l’anima che gli stava davanti e la trascinò fino in Aspromonte; una volta lì, la rinchiuse all’interno di Pietra Cappa, dove avrebbe dimorato fino al giorno del Giudizio Universale andando avanti e indietro e dando schiaffi alle pareti. Si racconta che in giornate particolarmente ventose passando nei pressi del monolite si sentano distintamente le urla disperate e lancinanti del sergente costretto ad abitare eternamente la prigione.
Chi ha inventato l’Aspromonte?
L’Aspromonte è stato casa di molte culture diverse: romani, arabi, bizantini, normanni, solo per citarne alcuni. Ma chi l’ha vissuto più di tutti, dandogli addirittura un nome, è stato il popolo greco. Il cuore dell’Aspromonte, grazie all’isolamento in cui è rimasto per secoli, ha potuto conservare tra le sue rocce, nascoste da piccole macchie di vegetazione, una comunità che parla un dialetto ellenico, veste costumi greci, celebra riti che appartengono alla Chiesa ortodossa, canta nenie vestite di suoni melodiosi, seppure incomprensibili:
Esu miò(ts)edda, ti isse an tin ossia
k’ egw pedi ti imme an ton ialw
arte ti eienastise megali
egw qelw nase prandestw
hla, hla mu konda
ti egw imme manacw.
“E tu, ragazza che vieni dai monti/ e io, che vengo dal mare/ adesso che sei diventata grande/ voglio sposarti/ vieni, vienimi vicino / ché mi sento solo/” così cantano i vecchi, sulle note di canzoni d’amore che non invecchiano mai.
Greco è, probabilmente, anche il nome “Aspromonte”, che ha due possibili etimologie: l’una lo fa derivare dal nostro dialetto e descrive la morfologia del suo territorio impervio, aspro, appunto. L’altra, assai più affascinante, sostiene che “Aspromonte” sia un nome grecanico, nato dall’aggettivo aspros, ossia bianco, con riferimento al colore delle sue rocce e al letto candido della fiumara dell’Amendolea, che solca le terre aspromontane.
Sia come sia, riconosciamo nell’Aspromonte l’inestimabile valore di uno scrigno, che ha saputo conservare per anni una flora preziosa, una fauna rarissima, un’unica cultura declinata in mille, pittoresche sfaccettature. Per questo merita di essere conosciuto, premiato e ammirato.