Vito Pirruccio, dirigente scolastico in pensione e presidente dell’Associazione Museo della scuola “I Care” commenta una bella lezione proveniente dall’aula scolastica.
Vito Pirruccio
Un mese fa commentavamo sbalorditi i 9 in comportamento assegnati dal Consiglio di Classe dell’Istituto Viola Marchesini di Rovigo, retrocessi a 6 e a 7 dopo l’indignazione generale e la decisione del Ministro Valditara di inviare in loco gli ispettori. Di nuovo, in questi giorni, protagonista un’altra scuola del profondo Nord: il TAR di Trento, al quale hanno fatto ricorso i genitori di un’alunna non ammessa all’esame di maturità, ha intimato al Liceo da Vinci della stessa città la riammissione della studentessa valutata negativamente in sede di scrutinio per la presenza di ben 5 insufficienze. La Commissione d’Esame del Liceo da Vinci di Trento ha riesaminato la candidata ammessa a colpi di sentenza e dopo sei ore di scrutinio ha deciso per la “bocciatura”, per le evidenti lacune registrate nel corso dell’esame.
Due Consigli di Classe che danno un quadro comportamentale opposto: il primo, quello dell’Istituto di Rovigo, andato in tilt sicuramente per la pressione mediatica e ministeriale; il secondo, invece, quello trentino, che ha mantenuto il rigore professionale, la compostezza deontologica e l’autorevolezza necessaria che si conviene a chi è chiamato a valutare un percorso didattico. A tal proposito, ricordiamolo a noi stessi, in barba ai possibili cavilli degli azzeccagarbugli, solo un collegio di insegnanti, il Consiglio di Classe nella sua interezza, può con cognizione di causa valutare, sempre che risulta incanalato nei giusti canoni della deontologia professionale. Una cosa è, infatti, il giudizio del singolo insegnante (che può avere le sue criticità valutative), ma altro è la valutazione collegiale che, in quanto tale, dovrebbe assicurare il massimo di ponderazione possibile. Salvo impazzimento collettivo.
Di ricorsi ai TAR da parte di genitori super protettivi sono piene le cronache di ogni chiusura d’anno scolastico. Tanto quello che non è possibile ottenete nelle aule scolastiche, i genitori ”chioccia”, in preda al panico per qualche insuccesso del proprio figliolo, sono pronti a scaricarne le colpe su uno stuolo di insegnanti e preside (almeno 10 componenti il Consiglio di Classe) e a trovare, complici gli azzeccagarbugli di turno, le pezze di appoggio per risolvere la vexata quaestio nelle aule dei tribunali. I giudici amministrativi, spesso, dando risalto più alla forma che alla sostanza (nel mentre la non ammissione è, purtroppo, più questione di sostanza che di forma), sono pronti a risolvere il dilemma: nel caso in esame 5 insufficienze su circa 10 discipline del curricolo non sono sufficienti per emettere un giudizio di non ammissione, perché valgono di più i contorni burocratici che stanno dentro la decisione (Alcuni, mi rendo conto, possono essere importanti, ma, spesso, la normativa da azzeccagarbugli trova il pertugio pronto all’occorrenza per far cadere l’impianto complessivo fatto di molta sostanza e poca forma).
Ma, a ciascuno il suo!
Se i giudici sono maestri della forma giuridica, i docenti attenti e giudiziosi sono i maestri della formazione scolastica. E se autorevoli e sicuri del proprio operato, come mi appaiono i colleghi trentini, per quello che posso capire dai dispacci di agenzia, eseguono il dispositivo della sentenza e con trasparenza e senza alcun risentimento di “lesa maestà” mettono il candidato nelle condizioni di ri-esprimersi e decidono secondo scienza e coscienza. Nessun timore reverenziale nei confronti dei giudici, ma la lucidità e la capacità di rendere evidente e tenere sul piatto del giudizio il valore espresso dalla candidata riammessa con sentenza e il valore del proprio ruolo e operato di docenti.
Ogni tanto, una bella lezione proviene dall’aula scolastica e illumina di autorevolezza anche quella della giustizia amministrativa. A ciascuno il suo!