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lunedì, Aprile 7, 2025
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“Antigone. Il sogno della Farfalla”, uno spettacolo emozionante

Maria Zema recensisce in modo approfondito e suggestivo, tanto che ci pare quasi di percepire le emozioni da lei descritte, lo spettacolo teatrale “Antigone. Il sogno della Farfalla” andato in scena lo scorso 29 giungo a Roccella Ionica.

Sospesa tra vita e morte, tra luce e buio, al confine tra il tempo della storia e quello della vita, c’è Antigone che, nella sua tomba-prigione-culla, ripercorre il suo dramma e quello dei suoi familiari. L’eroina tragica, raccontata dalla filosofa spagnola Maria Zambrano nel suo testo “La tomba di Antigone”, rivive nello spettacolo teatrale di Officine Jonike Arti, scritto da Donatella Venuti, dal titolo “Antigone. Il sogno della Farfalla”, andato in scena lo scorso 29 giugno nel suggestivo cortile dell’ex Convento dei Minimi di Roccella Jonica.

In uno spazio scenico minimale, con i cuscini che ricordano le trincee delle guerre novecentesche di cui risuona l’eco, Antigone è la bravissima Maria Milasi, in un monologo intenso e coinvolgente, un ruolo che sembra essersi cucita addosso, come quel suo vestito da sposa che ne simboleggia la purezza, segno di sogni e illusioni infranti.

Il compito di Antigone non è finito con la condanna, con la nobiltà del suo gesto, con l’opposizione al potere cieco. Lei nella sua tomba dovrà ancora cercare e ritrovare la luce, riscattare la colpa e placare il dolore. L’interpretazione della Milasi è esemplare nell’alternare il conflitto tra gli stati di coscienza, tra i suoi tanti ruoli, fanciulla, figlia, sorella, quasi-sposa. Li attraversa, in una grande prova attoriale, ora tenera, in quel tratto infantile che cerca di tenere con sé, – nei giochi con la sorella Ismene, nel rapporto protettivo con la nutrice, – implacabile e lucida, nell’analisi che inanella le colpe, coraggiosa nella pietà e nel perdono.

Il destino della figlia di Edipo non sembra potersi scindersi da quello della sua città e della sua famiglia: la guerra che ha portato alla morte i suoi fratelli, riflesso di quell’altra più atroce tragedia famigliare, travalica i confini dell’aldilà e diventa guerra di coscienza, tra lei e i suoi ricordi, tra lei e i protagonisti della sua storia, carnefici e vittime a loro volta.

È guerra con l’Arpia, il-ragno-del-cervello, la coscienza sorniona, cattiva che assedia Antigone e la stana per mettere in dubbio le sue verità. E parole di guerra parlano ancora i suoi due fratelli, non placati dalla morte, ancora a contendersi il vincolo di sangue e di amore che li lega alla sorella. L’eclettico e sempre efficace Americo Melchionda – che firma anche la regia di questo raffinato e denso spettacolo – li interpreta con sicurezza, evocando i suoni incomprensibili di tutti i conflitti del mondo, parole che non trovano senso e si perdono nelle opposte ragioni, e che non avranno mai pace.

L’espediente scenico della luce di una torcia che la protagonista accende e spegne è il simbolo della penombra dove cercare la verità, una verità non più affidata al “logos”, ma alle “viscere”, in quella “placenta di ombre”, espressione della Zambrano, dove la ragione poetica si fa chiarore e poi luce.

L’Antigone fanciulla, due volte figlia, due volte sorella, moltiplicata nei mille ruoli che il destino le ha assegnato, si ritrova allora nelle parole dell’Amore, non distinto più dalla pietà, ritrova la propria Voce e da lì rinasce, delicata e vivida come la farfalla.

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