Il mondo perduto di Salvatore Filocamo è l’esatto contrario di una rivoluzione: una reazione. I ricchi, quelli che mangiano e che hanno inventato la lingua, stanno letteralmente spolpando quel mondo dialettale che Filocamo ricorda e rappresenta. E lo rappresenta proprio nel suo orizzonte ideologico e poetico locale, semi-alfabetizzato
Uno dei crucci di Salvemini, socialista meridionalista, era la volontà di estendere il voto alle masse contadine del sud. Nella seconda metà dell’ottocento, il Partito Socialista italiano guardava a questa idea con grande sospetto: si temeva che i contadini del sud, al contrario degli operai del nord, avrebbero votato i partiti conservatori.
La poesia di Filocamo confermerebbe la scarsa carica rivoluzionaria dei contadini del sud. Sebbene nella sua introduzione all’edizione del 1975 di Ricchi e Povari Saverio Strati non voglia ammetterlo, è innegabile che alla radice della poetica di Salvatore Filocamo c’è “un atteggiamento reazionario” (p. 2). Togliamoci subito questa spina che sembra imbarazzare il critico calabrese, così da analizzare pacificamente questo atteggiamento e capirlo. Si tratta di un conservatorismo che viene dal basso, anche linguisticamente e che per questo, se capito male, sfocia facilmente nel qualunquismo, nella politica da bar. Strati si fa prendere da questa vena, leggendo ‘U sumeri mortu, facendo però un torto alla poesia, letta come chiacchiera: “E noi ammettiamo che il poeta non ha tutti i torti a reagire in questo modo: perché ci è noto che quand’egli era ragazzo con mille lire era possibile acquistare una casa e un podere; perché ci è noto che quando in una famiglia di contadini […]” eccetera.
Tuttavia Filocamo sviluppa un mondo poetico più complesso, che certo si fonda su una nostalgia di un’uguaglianza originaria e della semplicità dei tempi andati fino a dire esplicitamente che Era megghju quand’era peju (p. 50), ma che riesce a farsi voce di una classe sociale che si vede cancellata dalla storia, assorbita in un sistema di valori etici e insieme di produzione economica di tipo borghese capitalista. Nel mondo di Filocamo non c’è l’industria, il lavoro non è un problema declinato in senso politico (marxista), ma in senso mistico e corporeoinsieme – ovvero contadino. Nella terza poesia, Ricchi e povari, che dà il nome alla raccolta, viene presentato un mondo antico, feudale, in cui il lavoro è il lavoro della terra e il suo frutto è letteralmente il cibo, non il capitale:
‘U riccu s’arza e novi la matina
E trova ‘a colazioni proparata,
prima u si vesti già la panza è chjina
tantu pe cuminciari la jornata.
‘U povaru si leva cu luscuru,
si faci ‘a cruci e vaji a fatigari
scarzu, maluvestutu ed a ddijunu:
fin’a chi scura matandavi a stari. P. 18)
Antonio Marvasi
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